“Sensation seeking”, ossia continua ricerca di sensazioni forti ed esperienze sempre più al limite. Per Maria Beatrice Toro, psicoterapeuta e docente di psicologia di comunità presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, è questo tratto della personalità a spingere adolescenti e giovani adulti a sfide folli che possono mettere a rischio l’incolumità propria e altrui. Sfide ormai all’ordine del giorno come il boat jumping, tuffi da un motoscafo in corsa – negli Usa già costati la vita a quattro persone – o le corse contromano in moto con microcamera sul casco per immortalarle in video che fanno il pieno di visualizzazioni su YouTube, tornate, complice l’estate, come ogni anno in Val Trebbia. Moto spinte fino a 150 km orari lungo la Ss45 che collega Genova e Piacenza, trasformata in circuito di MotoGp; sorpassi azzardati, rotonde e tornanti imboccati contromano rischiando di trovarsi di fronte un camion. Il sindaco di Travo (Piacenza) Lodovico Albasi, che è anche consigliere provinciale delegato alla Ss45, parla di un fenomeno che negli anni ha causato diversi morti.
“È tipico dell’età adolescenziale – che in psicologia dura fino a 25 anni quando l’encefalo completa il proprio sviluppo – cercare sensazioni esaltanti”, esordisce Toro. Ma qui si va ben oltre:
“Siamo di fronte a giovani intorpiditi che per scuotersi dal torpore cercano sensazioni sempre più estreme”.
Intorpiditi da che cosa?
Dalla generazione zeta in poi, i giovani sono fondamentalmente
cresciuti all’insegna del tutto troppo presto.
Avendo avuto e sperimentato tutto, quando arrivano a 18- 20 anni hanno costantemente bisogno di nuovi stimoli, e per provare qualcosa devono fare esperienze al limite. A questo si aggiunge la crisi del patto intergenerazionale: nell’impossibilità di progettare un proprio percorso di vita inseguono altri tipi di gratificazioni, tra i quali la ricerca pura di sensazioni forti come la corsa, il brivido.
Giovani che, come emerge dai video postati, si incitano l’un l’altro. Sembra di partecipare ad un videogame.
La loro relazione si riduce ad un esaltarsi reciproco e ad una gara continua, proprio come in un videogame. Cresciuti fin da piccoli in compagnia dei videogiochi: eccitazione, adrenalina, realtà virtuale immersiva, non si accontentano più della normalità. Da qui emerge anche la superficialità delle amicizie all’interno di questi gruppi: una sorta di complicità e un reciproco fomentarsi finalizzati al compimento di una “impresa”.
Che tipo di adulti ci sono dietro i ragazzi che hanno questi comportamenti?
I genitori, ma anche tutti coloro che hanno compiti educativi, non sono riusciti a svolgere la propria mission in modo adeguato. A questi giovani è mancato il dialogo con un adulto che sia tale. Nel mio lavoro vedo genitori che non riescono a mettere i bambini a dormire in camera da soli, madri che allattano i figli fino a tre anni, genitori che non riescono a “contenere” le esperienze troppo precoci dei figli o che, una volta adolescenti, li difendono a oltranza. Oggi i genitori per lo più vivono l’infanzia del proprio figlio come un lungo idillio in cui divertirsi insieme in una sorta di complicità “amicale” che nulla ha a che fare con l’asimmetria dei ruoli necessaria all’educazione. Poi, all’improvviso, si trovano di fronte ragazzi “adultizzati” che hanno sperimentato tutto e troppo presto.
Lei parla di frattura tra generazioni.
Vedo un mondo adulto sostanzialmente cieco, sordo e muto di fronte ai giovani; impegnato piuttosto e rincorrerli mettendosi sullo stesso piano. Ma se noi adulti, per fare un esempio, sfrecciamo eccitati e senza cintura di sicurezza in Ferrari, che messaggio diamo ai nostri figli?
Questi ragazzi sono recuperabili? In che modo?
Nessuno deve essere considerato irrecuperabile.
Occorre sempre dare una seconda possibilità; a maggior ragione a giovani adulti nei quali, grazie alla loro flessibilità e apertura, c’è ancora margine per un approccio pedagogico e per il cambiamento. Con loro occorre mettere in campo interventi volti ad indicare una strada, un binario lungo il quale possano trovare dentro di sé, con l’aiuto di un adulto, un centro di gravità forte:
chi sono, che cosa voglio, quali sono i miei valori, dove voglio andare.
Un giovane che esprime in modo positivo queste idee è meno vulnerabile a comportamenti dissennati. Ma ogni intervento di recupero, per essere efficace, deve essere svolto da un’équipe di professionisti.
Lei ne vede molti?
Lavoro dalla mattina alla sera con adolescenti borderline che hanno bisogno di una comprensione psicologica e pedagogica. Se trovano una figura adulta in grado di offrire loro strumenti per produrre il proprio centro di gravità e tracciare la propria strada, possono cambiare. Ma questo richiede tempo e pazienza, anche perché dietro la loro ostentata spavalderia e ribellione contro tutto e contro tutti si nascondono grandi fragilità e insicurezze. Anche su queste occorre lavorare.
È possibile prevenire questi comportamenti?
E’ possibile ma ci deve essere la volontà di farlo. Occorre uno sforzo da parte dell’intera comunità: politica, sociale, sanitaria, educativa, pedagogica culturale. L’assenza dell’adulto non riguarda solo i genitori: assistiamo ad
una tragica assenza sociale all’interno della quale il ragazzino viene considerato essenzialmente un consumatore
al quale propinare serie TV e sciocchezze di ogni tipo. L’atteggiamento nei confronti dei giovani è dissennato. Incontro bambini, genitori e nonni: bisogna armonizzare le età della vita, schegge impazzite che, salvo ritrovarsi in alcuni momenti di complicità, si muovono ognuna per conto proprio. Occorre infine tornare a parlare del valore della generatività e del prendersi cura, magari ripartendo dall’associazionismo, dal volontariato e, perché no, dalle parrocchie.