Poliziotti arrestati a Verona. Fiasco: “Non si possono liquidare come mele marce. Ci sono responsabilità della politica”

“La democrazia dà ai suoi corpi di polizia e militari un’impronta del valore intangibile e assoluto della dignità della persona e della vita umana. Principi che ben si sposano con la dignità della funzione di militare o di poliziotto in uno Stato democratico dove sei un servizio per il cittadino e per la Repubblica e non il braccio armato e violento del potere costituito. Vedo – su questo fronte - una regressione”, avverte il sociologo

Foto Calvarese/SIR

Cinque poliziotti sono stati arrestati a Verona con l’accusa di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico. Un ispettore e quattro agenti sono finiti ai domiciliari. Ma ci sono altri indagati: nei loro confronti la Procura della Repubblica scaligera ha avanzato al gip l’applicazione di misure interdittive, come la sospensione dal servizio o il trasferimento d’ufficio. Di quanto è successo parliamo con Maurizio Fiasco, sociologo specializzato, tra le altre cose, in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Come possono succedere casi come quello di Verona?

Su tutta questa fenomenologia di episodi tragici di devianza all’interno dei corpi militari e di polizia, come di altre tragedie che avvengono sempre in questi apparati, ci sono analisi scientifiche, approfondimenti e anche suggerimenti di come fronteggiarli, prevenirli ed evitarli. Perché da quando è stata ripristinata la democrazia in Italia la cultura istituzionale si è occupata del tema e perché le forze di polizia in uno Stato democratico non sono il braccio armato del potere ma sono un servizio per il bene del cittadino. Queste devianze che si replicano con frequenza e in modo allarmante – ricordiamo il caso di Piacenza nel 2020, il caso della Uno bianca, l’episodio della trans torturata a Milano, il caso di Verona o, andando lontano nel tempo, quasi 35 anni fa la strage di Bagnara di Romagna – non possono essere liquidate con la frase fatta delle “mele marce in un bel cesto di mele”.

Di che si tratta, allora?

Assistiamo da almeno un trentennio alla fuga dalla responsabilità gestionale, di indirizzo, di controllo e di impronta etica, deontologica e personale che viene dalla conduzione di questi apparati, per gravissime responsabilità della politica. Dico questo perché contraddicendo una tradizione che è durata quarant’anni, negli anni più belli della Repubblica, quando maggioranza e opposizione, governo e opposizione sulla questione degli apparati di polizia, come degli apparati militari, hanno sempre tenuto una comune responsabilità, cioè non si sono mai lasciati andare – o solo rarissimamente – a polemiche strumentali, a messaggi devastanti di esaltazione o di copertura degli atti di violenza o di stigmatizzazione in blocco degli apparati di sicurezza, questo, purtroppo, è diventato una consuetudine almeno negli ultimi vent’anni. Davanti a episodi chiarissimi come quello della trans di Milano non può che esserci da parte del mondo politico destra e sinistra, governo e opposizione, un atteggiamento univoco. Altrimenti,

ogni esitazione che ha il livello della politica si traduce in un ancoraggio, se non addirittura in un incentivo, a deviare all’interno di queste organizzazioni.

Faccio un esempio nel campo della medicina.

Ci dica…

In un reparto di malattie infettive si adottano modelli di qualità del servizio per ridurre il più possibile il rischio di contagio. Una analoga sensibilità per gli apparati di polizia e gli apparati di sicurezza non esiste, eppure per gli apparati di sicurezza il rischio di contagio è la vicinanza, per ragioni di servizio, al male, alla malavita. Innanzitutto, c’è l’esibizione della ricchezza, dello spreco, della dissipazione, dei comportamenti machisti, dei comportamenti superomisti, predatori della malavita: un malavitoso in un giorno consuma quella che è la retribuzione di un anno di un agente di polizia e questo ha una forza comunicativa molto potente. Secondo elemento di rischio: le organizzazioni di polizia e militari sono delle istituzioni totali, cioè delle organizzazioni che, oltre a richiedere un’attività lavorativa, connotano l’identità, la rappresentazione di sé, i sistemi di comunicazione, le relazioni interpersonali che si svolgono all’interno di quell’organizzazione stessa. Le istituzioni totali sono a rischio di devianza, per questo si cerca di far evolvere un’organizzazione in un servizio. Quanto meno le organizzazioni di polizia si autorappresentano e sono un servizio, tanto più sono esposte al rischio di devianze interne. Quindi, da un lato c’è il confronto con gli stili di vita ammantati da “onnipotenza” esibiti dalla malavita e, dall’altro, agiscono quei meccanismi spontanei gregari che in una organizzazione/istituzione totale si riproducono.

Come si superano questi rischi?

Occorre concepire – tecnicamente e operativamente – una qualità del servizio di polizia, sorvegliare la sussistenza dei requisiti di qualità dell’organizzazione, perché laddove la qualità dell’organizzazione si indebolisce, là c’è la spia di qualcosa che non va. Invece di adottare un sistema solo di ispezione e controllo dall’esterno, bisogna partire dalla valutazione del modo di essere del servizio di polizia e laddove emergano delle pecche si approfondisce e si previene la devianza, come dovrebbe accadere nelle organizzazioni sanitarie.

Il gruppo di Verona si lasciava andare a veri e propri episodi di consumo sadico della violenza.

E non si trattava di violenza strumentale, cioè di una violenza non fine a se stessa ma per raggiungere un obiettivo; in questo caso era violenza espressiva, cioè che viene agita non per un fine ma per umiliare la vittima. Almeno da quanto riportano i media si capisce che ci fosse una prevalenza di violenza espressiva, sadica, come si evince dalle cronache per il recentissimo episodio di Milano della polizia locale ai danni della trans, come nel 2020 nel caso dei carabinieri di Piacenza, come cristallizzato in sentenze passate in giudicato per i casi del G8 di Genova o di Stefano Cucchi.

Ci sono altri elementi che possono scatenare questa violenza?

Indubbiamente, c’è tutta una serie di problemi, che riguardano lo stress, il burn-out, la sofferenza di quanti operano in questi settori. A ciò si aggiunge la vicinanza dell’arma: in questi ambiti è anomala anche l’incidenza dei casi di femminicidio e di suicidio tra i corpi militari e i corpi di polizia. C’è una materia ampia su cui attuare una vera e propria riforma di questo mondo. Ma su tali aspetti siamo fermi ai primi anni Ottanta.

Da cosa si potrebbe ripartire?

Un elemento positivo c’è: l’attenzione, direi persino la preoccupazione maniacale, nel sistema degli istituti di formazione del personale di polizia. Ma non basta.

Perché?

Dove non ci siamo è nel modello gestionale che viene adottato nei servizi di polizia. E un’ulteriore questione si registra quando i futuri agenti escono dalle accademie, dalle scuole, dal corso di formazione quello che hanno appreso viene smontato, “smantellato” nei reparti in nome di una abilità pratica che deve contare e pesare di più dell’insegnamento della didattica che hanno ricevuto. Poi c’è un’ulteriore responsabilità che risale a quando fu riformato il servizio di leva e fu abolita la leva obbligatoria e istituita quella volontaria, senza possibilità di progressione in carriera all’interno delle forze armate. Potrebbe sembrare non pertinente e invece sì: una cosa è se si entra in un corpo militare coltivando un percorso di carriera e identificando una collocazione personale; un’altra è se sono ferme volontarie che durano in media sei anni, con un’esperienza prolungata in zone di guerra dove non si ha alcun rapporto con la popolazione locale e dove si vive percependo costantemente il pericolo. Così si è ancora più prigionieri dei comportamenti gregari che si attivano spontaneamente tra i commilitoni, per poi essere immessi obbligatoriamente – dopo questo tipo di impronta professionale, di caratterizzazione dell’identità di uomo o donna in divisa – in una riserva di posti nelle altre amministrazioni, specialmente nelle amministrazioni di polizia. Queste ultime si trovano ad avere del personale che ha già maturato una identità frontalmente contraddittoria con quella dell’operatore di polizia.

In che modo?

L’identità professionale di un poliziotto è quella di cercare il rapporto con il cittadino, di essere dentro il tessuto della città. L’identità del militare è quella di fronteggiare il pericolo che è in agguato in ogni istante. Quindi tutte le abilità di servizio, tutta la deontologia di servizio nel rapporto con il cittadino viene meno. Ecco il perché del moltiplicarsi dei casi di devianza e di violenza nel personale di polizia perché la riconversione dalla professionalità di militare di truppa a corpo che svolge un servizio civile è stata finora in gran parte fallimentare. La democrazia – e per questo mi sono impegnato nell’insegnamento e nella consulenza in questo settore – dà ai suoi corpi di polizia e militari un’impronta del valore intangibile e assoluto della dignità della persona e della vita umana. Principi che ben si sposano con la dignità della funzione di militare o di poliziotto in uno Stato democratico dove sei un servizio per il cittadino e per la Repubblica e non il braccio armato e violento del potere costituito.

Vedo – su questo fronte – una regressione e di questo sono molto preoccupato, oltre che amareggiato.

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