45 anni fa, il 9 maggio 1978, veniva ritrovato in via Caetani, nel centro di Roma, il corpo esanime di Aldo Moro, triste e cruento epilogo dei 55 giorni durante i quali lo statista democristiano rimase sequestrato per essere sottoposto al “processo popolare” da parte delle Brigate Rosse. Fu il culmine degli “anni di piombo” che insanguinarono l’Italia col tentativo di organizzazioni terroristiche e gruppi eversivi di sinistra e di destra di destabilizzare la vita democratica del Paese. Con Guido Bodrato, ex parlamentare democristiano, già ministro ed europarlamentare, il Sir ripercorre il pensiero e l’azione politica di Moro, “uno dei leader più autorevoli e capaci di visione”, secondo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il quale “l’eredità di Aldo Moro è un patrimonio vasto e ricco, a cui la democrazia italiana può guardare, nel riconoscimento dell’apporto progettuale e costruttivo che vi ha dato l’uomo di Stato, il fine pensatore, il giurista colto, il dirigente politico proveniente da un mondo associativo pieno di fermenti e di valori”.
Stratega, tessitore, innovatore. Attento alle trasformazioni e aperto all’ascolto della società. Di Aldo Moro sono state evidenziate le molteplici caratteristiche. Lei come condenserebbe in poche parole il profilo politico dello statista magliese?
Dei molti discorsi di Aldo Moro, ricordiamo i “pensieri” che esprimevano una sintesi della tendenza che si stava delineando e ci facevano comprendere il significato degli avvenimenti di cui eravamo spettatori. Moro
iniziando a parlare guardava lontano
prima di delineare la risposta che il partito poteva dare. Così è stato quando ha ricordato ai movimenti che rivendicavano i diritti sociali a non dimenticare che “la stagione dei diritti risulterà effimera, se non riscopriremo un nuovo senso del dovere”; così quando, in presenza dell’instabilità dei governi e del diffondersi di una crisi economica e sociale che aveva provocato una pesante disoccupazione, ha posto all’attenzione della maggioranza, ma anche dell’opposizione, la necessità di affrontare quella emergenza, quella “democrazia difficile”, facendo della solidarietà nazionale il perno della “democrazia compiuta”. Ed aveva parlato di “convergenze parallele” quando si trattava di convincere i democristiani, ma anche i socialisti, ad aprirsi alla collaborazione necessaria e possibile: ognuno continuando a guardare ad un proprio progetto, riconoscendo però che era segno di intelligenza aprirsi alla collaborazione per rispondere alla crisi del presente… sapendo che quella era la strada per tornare al proprio sentiero. Inoltre, era consapevole che ogni sviluppo avrebbe comportato cambiamenti nell’assetto sociale e politico ma anche che “di crescita si può morire”.
Moro fu una delle figure di cattolici impegnati in politica più significative della Prima Repubblica. Come interpretò questo impegno?
“Il dialogo” per Moro è stato per anni un foglio ciclostilato che diffondeva con le sue note, e diventò “il confronto” con l’opposizione, quando declinò la centralità democristiana, dopo il referendum del 1974 sulla legge per il divorzio, approvata nel 1970, che un coordinamento di cattolici aveva cercato di abrogare. Il sen. Fanfani pensò nel 1972 che l’iniziativa del prof. Lombardi poteva diventare l’occasione per recuperare al consenso democristiano elettori cattolici che si stavano allontanando dallo Scudo Crociato.
L’on. Moro volle conoscere l’opinione di numerosi vescovi, nel timore che lo scontro referendario finisse col provocare una radicalizzazione delle posizioni e ricostruire lo storico steccato tra laici e cattolici; e tenne un atteggiamento più prudente… Anche perché quel contrasto si approfondì tra il 1972 e il 1974, durante l’ultimo tentativo di rilanciare il centrismo, con un governo Andreotti che cercava di ristabilire un rapporto con Malagodi. In quei mesi si era contrapposto al Comitato dei cattolici per il “Sì”, guidato dal prof. Lombardi, il Comitato per il “No” che aveva come perno la Lega democratica, decisamente contraria ad un ritorno al passato. E questa doppia frattura determinò la vittoria dei difensori del divorzio e la secolarizzazione della vita politica, interpretata come isolamento del partito cattolico, confessionale. Si era da poco concluso il Concilio Vaticano II: Paolo VI era il nuovo Papa, nella vita politica stava iniziando la “Stagione montiniana”. Questo il titolo di un libro che ha ricordato l’ispirazione della politica morotea e
il leader che aveva cercato di rinnovare la strategia degasperiana, diventata la motivazione delle BR contro Moro, accusato di essere, con De Gasperi, espressione del capitalismo internazionale.
In realtà Moro si riferiva, anche in quella circostanza, ad un pensiero di don Sturzo: una politica laica non cancella l’ispirazione cui riferiscono i valori su cui si fonda l’identità della “Terza forza”, storicamente alternativa ai liberali ed ai socialisti. Il popolarismo riguarda i cattolici democratici, non i conservatori. L’intransigenza riguarda l’identità dei popolari, non l’intransigenza clericale del tempo dell’ancien règime…
Uomo mite ma determinato, Moro fu uno dei più grandi fautori della mediazione tra forze politiche di diverso orientamento ideologico nonostante incomprensioni e ostilità…
Moro era considerato “il politico dei tempi lunghi”, ma nel caso della contestazione del ’68
comprese prima e meglio di molti suoi critici che stavamo vivendo un cambiamento radicale, che “tempi nuovi si annunciano… e cammineranno sempre più veloci”. Capire “i tempi nuovi” era il compito della politica: capire le proteste dei giovani e la mobilitazione degli operai, saper leggere il tempo “che ci è dato vivere”, i grandi mutamenti che stavano mettendo in crisi lo stesso ordinamento costituzionale.
Ma riconoscere che una svolta storica come quella che si dimostrava necessaria, si poteva realizzare con l’unità della Dc: “unità che deve essere raggiunta nella libertà e non con l’autoritarismo o addirittura con la compressione della dittatura. Nessuno può illudersi di tornare, dopo questo difficile passaggio, ad una democrazia rigorosamente lineare”. E di fronte all’esplosione dell’assemblearismo nelle Università e nelle grandi fabbriche, ed alla richiesta di superare la democrazia rappresentativa con il voto diretto aggiungeva: “Non credo molto in rimedi istituzionali, se si pensa a riforme istituzionali difficili da immaginare, da adottare da calare nella realtà”. Per Moro, che aveva partecipato alla stesura della Carta costituzionale, pensare di tornare allo “statu nascendi” in anni di inquietudine era come minacciare la stessa tenuta del sistema democratico, anche quando a queste riforme si guadava con le migliori intenzioni. Roberto Ruffilli, anche lui ucciso dalle BR, riflettendo sul pensiero di Moro ha scritto che Moro “ha sempre mantenuto un certo distacco nei confronti di ogni meccanica applicazione del bipolarismo destra-sinistra, ed ha cercato di fare i conti con una pluralità di partiti a fondamento popolare e con una differenziazione tra gli stessi radicata in una cultura politica”.
Cos’ha rappresentato Aldo Moro per la vita politica, sociale e istituzionale dell’Italia?
Moro aveva compreso che la Terza fase della vita democratica della Repubblica, dopo la fase del centrismo degasperiano e quella del centro-sinistra, poteva essere una fase caratterizzata dall’alternanza al governo del Paese di schieramenti in competizione. Sarà definita, qualche anno dopo, “un nuovo inizio” per la sinistra che dopo la caduta del Muro di Berlino sarà costretta ad una profonda revisione, anche del nome del partito dei post comunisti. Con il referendum del 1974 e la secolarizzazione, con il declino della centralità democristiana e l’emergere della questione morale, si erano esaurite la spinta propulsiva rappresentata dall’unità politica tra i cattolici insieme alla politica delle alleanze (prima con i partiti “liberal” e poi anche con i socialisti) che l’aveva resa possibile per mezzo secolo. Un radicale ripensamento della presenza della politica centrista della Dc era ormai richiesto anche dal mondo cattolico, ed in certa misura imposta del Concilio Vaticano II. Si pensi ad “Evangelizzazione e promozione umana”, alla “Camminare insieme” di padre Pellegrino, alla sollecitazione del card. Martini “Siamo una minoranza, non dobbiamo diventare una setta”, al ripensamento cui si riferirà padre Sorge, che interpreta l’esperienza politica dei cattolici quale dimostrazione del pluralismo ormai imposto dalla complessità della nuova società, nella quale comunque l’unità è possibile ed urgente, attorno ad alcuni valori fondamentali. La laicità della politica non cancella il riferimento alla coscienza, senza fare diventare il riferimento alla laicità come un nuovo confessionalismo laico. Così ha concluso una riflessione mons. Gastone Simone: “Desidero un partito di vera ispirazione cristiana, che coniughi di nuovo il sistema dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa con l’ispirazione cristiana, che animi sia le motivazioni soggettive dell’impegno politico sia le idee progettuali e programmatiche…”. Qualcuno, ha continuato il vescovo, “preferirebbe la presenza di due formazioni (…). Sarebbe qualcosa di nuovo…”.
Moro fu il grande artefice del “compromesso storico” tra Dc e Pci prevedendo una democrazia dell’alternanza…
La proposta di Moro – “la via del confronto politico” – è quella su cui nel 1977–‘78 iniziò il confronto con Berlinguer, per avviare un percorso “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”. Ma si stavano discutendo anche altre vie, oltre a quella di un confronto tra la proposta comunista del “compromesso storico” e la solidarietà nazionale della segreteria Zaccagnini… che non era una ritirata, ma un confronto che nasceva dalla necessità; ma Dc e Pci restavano alternativi. Chi pensava all’alternativa al “regime democristiano”, pensava ad una legge elettorale da mettere subito alla prova con una legge maggioritaria… Ma non sapeva come risolvere il contrasto che subito oppose comunisti e socialisti: quale partito guiderà il governo? Il Pci sostenne, con l’astensione, il governo Andreotti e la solidarietà nazionale, ma ormai voleva “uscire del guado” ed a queste condizioni accettò la garanzia di Moro. Ma all’Assemblea dei parlamentari della Dc, a chi chiedeva a Moro “quale sarà la conclusione della traversata del deserto?”, lui rispose che non vedeva alternative, ed osservò: “Vi è chi, in questo contesto storico pensa che alcuni nodi della storia debbano essere tagliati, non sciolti: Questo è un fatto politico… che come il lampo preannuncia il tuono”. Ed aggiunge: “Se fosse possibile dire. Saltiamo questo tempo, ma cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato con tutte le sue difficoltà. Quello che è importante è preservare l’anima, la fisionomia, il patrimonio ideali della Dc”. E concluse: “Se ci saremo, conteremo anche noi”. Per Moro contava l’unità della Dc; per la maggioranza dei parlamentari, si sarebbe dovuto iniziare questa traversata senza comunisti al governo… Il Pci non intendeva restare “in mezzo al guado”…
In questo frangente l’Italia dovette fare i conti con quei tragici 55 giorni che si aprirono con il sequestro e si chiusero con l’omicidio dello statista Dc…
Quando la Camera dei deputati stava per votare la fiducia al governo Andreotti in via Fani le BR uccisero gli uomini della scorta e sequestrarono l’on. Moro… Il rapimento ha avuto un primo effetto che può apparire contraddittorio, ma dimostra qual è stata l’emergenza che il Paese, iniziando dal Parlamento, ha dovuto affrontare. I parlamentari comunisti votarono per un governo dal quale erano stati esclusi. Ed iniziarono, non solo per la Dc, i giorni del tormento.