La dura repressione della criminalità, nel Paese delle “maras”, gruppi feroci e ramificati in tutto il mondo, vale la sospensione di importanti diritti democratici e la reclusione senza capi d’imputazione di migliaia di giovani? Sì, secondo la maggioranza della popolazione dell’El Salvador. No, secondo numerosi organismi della società civile e secondo la stessa Chiesa cattolica salvadoregna. Lo scorso 27 marzo è stato “celebrato” nel Paese un singolare anniversario: quello dell’introduzione dello stato d’eccezione, dodici mesi prima (anche se la Costituzione lo consentirebbe per un solo mese), da parte del controverso presidente Najib Bukele, che è passato dagli accordi “sotto banco” con le “maras” e le “pandillas”, per limitare il numero degli omicidi, alla guerra aperta contro i gruppi criminali.
Diritti umani limitati. Da oltre un anno, ci sono limitazioni alla libertà di riunione e di associazione, è stato tolto il diritto alla inviolabilità della corrispondenza e della posta elettronica, non è garantito il diritto alla difesa, non esistono più limiti alla carcerazione preventiva, si può essere arrestati senza un ordine di cattura emesso da un giudice, possono passare 72 ore senza che una persona tratta in arresto conosca il suo capo d’accusa.
In questi mesi, nelle carceri del Paese sono morti oltre cento detenuti, in circostanze che sarebbero tutte da indagare. Il 2% della popolazione salvadoregna si trova in carcere, e si tratta soprattutto di giovani. Per dare l’idea, si tratta di una percentuale venti volte maggiore rispetto alla situazione italiana, e comunque la più alta al mondo.
Il presidente Bukele, grazie anche al “pugno di ferro” contro i gruppi criminali, ha un alto livello di approvazione tra i cittadini. A un anno dall’introduzione dello stato d’eccezione, l’Istituto universitario di opinione pubblica (Iudop) dell’Università centroamericana “José Simeón Cañas” ha effettuato un articolato sondaggio tra la popolazione salvadoregna. Emerge un’ignoranza di fondo, dato che circa tre cittadini su quattro non conoscono quali sono i diritti che sono stati “sospesi”. Il provvedimento del Governo riceve un voto lusinghiero (7,92 su un massimo di 10) da parte degli intervistati. L’approvazione più alta arriva da coloro che hanno il più basso livello d’istruzione e dalla popolazione rurale.
Il “prezzo” della sicurezza. Da San Salvador arriva, al Sir, il duro giudizio del card. Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare emerito dell’arcidiocesi, in giovane età segretario dell’arcivescovo martire Oscar Romero. “L’indagine dello Iudop è molto seria e colpisce. In pratica, la gente si occupa poco delle implicazioni dello stato d’eccezione, non è informata e non si rende conto che a essere in gioco è lo Stato di diritto. In pratica, si tolgono delle libertà nel nome della sicurezza, la logica di fondo è che questo è il prezzo per la tranquillità dei cittadini”. Il porporato, coscienza critica del Paese, molto ascoltato dalla popolazione, ha alzato la voce contro i provvedimenti del Governo in un momento particolarmente solenne, lo scorso 24 marzo, alla messa per l’anniversario del martirio di mons. Romero, quando si è espresso con le medesime domande del santo arcivescovo: “Come potete dormire tranquilli, vedendo che l’eccezione è diventata la regola, cioè la normalità, come potete accettare come normale che le persone che soffrono non possano esprimersi pubblicamente, come potete vedere come normale che tutti i canali di dialogo siano chiusi?”. Riferendosi alla situazione delle carceri, ha poi detto: “Mi immagino che all’improvviso il Papa arrivi in El Salvador e chieda di andare a Mariona o a Tecoluca (i nomi delle principali carceri, ndr), sarebbe interessante, vale la pena di sognare”.
Le dure parole dell’omelia vengono ora confermate: “In questo momento nel Paese non esiste uno Stato di diritto, e non esiste un sistema giudiziario che garantisca un giusto processo. Certo, il Governo continua ad avere un alto indice di popolarità. La gente pensa a stare tranquilla nella sua casa. Intanto, i giovani che vivono in aree a rischio, in aree di vulnerabilità, li portiamo in prigione, senza una ragione specifica per la detenzione, basta solo che vengano da zone dove sono attive le ‘pandillas’, le bande criminali”. Difficile trovare una soluzione rispetto al tunnel in cui il Paese è caduto: “La chiave di tutto è di carattere educativo. Ma, nell’immediato, non c’è colloquio con il Governo, neppure da parte della Chiesa. Le domande di ‘habeas corpus’, di conoscere i capi d’imputazione degli arrestati, rimangono senza risposta. Con le leggi attuali, qualsiasi pretesto è buono per mettere in carcere una persona, qualsiasi sospetto. Questo rende difficile anche mettere in atto iniziative di prevenzione e di promozione umana, si rischia di finire in carcere”.
La preoccupazione della Chiesa per i giovani. Se la situazione nella capitale e nel suo hinterland è caratterizzata da questo pugno di ferro, le cose non cambiano di molto neppure in periferia, come accade verso la montagna. Ne è testimone mons. Oswaldo Escobar Aguilar, vescovo di Chalatelango: “La nostra Costituzione prevede che lo stato d’eccezione possa protrarsi per un mese, invece ce l’abbiamo da un anno. Il Governo opera soltanto in modo repressivo, senza dare spazio ad altre alternative. Così, come vediamo noi in una diocesi di frontiera, i giovani se ne vanno: la delinquenza, la crisi economica, ora anche il rischio di essere arrestati senza avere fatto nulla… Cresce l’emigrazione, che ha riguardato negli ultimi anni 300mila salvadoregni”. La Chiesa, in sinergia con la comunque fragile società civile, cerca di fare il possibile per promuovere il protagonismo giovanile: “In diocesi abbiamo attivato sette progetti, dall’agricoltura all’incentivo all’imprenditoria, anche attraverso il microcredito. Cerchiamo di dare un lavoro solido, rispetto all’impiego informale, che sta crescendo. Ma ai giovani arriva dagli Stati Uniti un facile miraggio, vedono il lusso, le case grandi… Qui si sentono provvisori”. Difficile, invece, per la Chiesa, e non solo, trovare il modo di reinserire nella società giovani coinvolti nelle bande criminali, soprattutto nelle “maras”, i gruppi più organizzati e ramificati: “Sono in pratica delle mafie, molto potenti. C’è stato qualche tentativo, ma di carattere episodico. I leader dei gruppi criminali uccidono chiunque provi a ostacolare i loro piani”.