Umanità sul perimetro del non ritorno. Similitudini che legano due proposte in streaming della settimana. Anzitutto l’atteso finale di stagione su Sky e Now per l’acclamata serie Tv “The Last of Us” firmata da Craig Mazin (“Chernobyl”, 2019) e Neil Druckmann, con Pedro Pascal e Bella Ramsey. Racconto drammatico che si muove in una cornice apocalittica, con scivolate nel thriller-horror, che affascina e conquista per la riflessione (con non pochi interrogativi morali) su temi centrali quali vita, morte, famiglia, elaborazione del lutto, “ultimi”, violenza e solidarietà. Ancora, abbiamo visto in anteprima gli episodi iniziali della serie Apple Tv+ “Extrapolations. Oltre il limite” scritta e diretta da Scott Z. Burns (“The Report”, 2019), denuncia del deragliamento climatico-sociale nel nuovo millennio. Cast all star: Kit Harington, Meryl Streep, Sienna Miller, Marion Cotillard e Tahar Rahim. Il punto Cnvf-Sir.
“The Last of Us” (Sky-Now)
Mentre a Los Angeles andava in scena la 95a edizione degli Oscar, nella notte di domenica 12 marzo Hbo rilasciava a livello internazionale l’ultimo, attesissimo, episodio della serie “The Last of Us”, in Italia distribuita da Sky e dalla piattaforma Now. Considerata da molti – a ragione – uno dei migliori titoli in circolazione, “The Last of Us” si congeda con un episodio duro, struggente, che apre non pochi dilemmi morali. Ma andiamo con ordine. La serie di matrice apocalittica, su un presente-domani distopico dove l’umanità è mutilata da un virus letale e da dinamiche di sopraffazione “Homo homini lupus”, ha sorpreso per la qualità di racconto e della messa in scena, trovando un suo specifico narrativo diverso rispetto all’impianto dell’omonimo videogioco cui si ispira, targato Naughty Dog-Sony. Alla guida di “The Last of Us” troviamo Neil Druckmann (autore del videogioco) e Craig Mazin, che ha firmato di recente il pluripremiato dramma “Chernobyl”. Protagonisti due attori di richiamo: Pedro Pascal, forte di serie cult come “Game of Thrones”, “Narcos” e “The Mandalorian”, e la giovane in ascesa Bella Ramsey, la valorosa Lyanna Mormont sempre in “Game of Thrones”.
La storia. Stati Uniti, 2023. A vent’anni dalla diffusione di un terribile virus riconducibile a una specie di funghi, dell’umanità rimane ben poco. I sani sono rifugiati in città-fortezze, sotto il cartello governativo (autoritario) della Fedra; i contagiati hanno preso delle fattezze simil zombie. Joel (P. Pascal) è un ex imprenditore edile sulla cinquantina, sconfitto e disilluso; la pandemia gli ha strappato via tutto, in primis l’amata figlia adolescente Sarah. Il movimento di resistenza delle Luci, opposto a Fedra, chiede a Joel di scortare la quattordicenne Ellie (B. Ramsey) in un viaggio attraverso i territori aspri e distrutti del Paese. La ragazza è immune all’infezione e potrebbe aiutare la comunità scientifica a trovare un vaccino…
Il genere narrativo apocalittico, il survival movie distopico, è stato molto frequentato negli ultimi due decenni tra cinema, serie Tv, videogame e letteratura. Il mondo sul crinale dello smarrimento è un tema che di certo affascina e trova consensi. Alcuni titoli: le saghe cinematografiche “Hunger Games” (2012-15) e “Divergent” (2014-16), la serie televisiva statunitense “The Walking Dead” (2010-2022) come pure la serie tedesca “Tribes of Europa” (2021, Netflix) e la miniserie italiana “Anna” (2021, Sky).
Qual è allora la peculiarità di “The Last of Us”? Al di là del binario narrativo di genere, la serie squaderna un’interessante riflessione sociale ed esistenziale. È il viaggio in solitario di due ultimi, Joel ed Ellie: lui è un uomo che ha abdicato alla vita, cinico e spigoloso, lei un’adolescente orfana cresciuta troppo in fretta, abituata a perdere chi ama e senza troppe aspettative dalla vita. Ellie sa che potrebbe essere la chiave per arrestare la pandemia, e non teme di finire come cavia da laboratorio. Nel corso del viaggio, però, Joel ed Ellie si avvicinano, si riparano a vicenda, curando le ferite dell’anima l’uno dell’altra. Nasce tra di loro una tenerezza che ha del poetico, un legame familiare che supera fratture e irrisolti del passato. Un viaggio arricchito da storie di un’umanità “disgraziata”, rimasta appesa nell’incertezza: la coppia formata da Bill e Frank, i fratelli Sam e Henry, gli anziani Marlon e Florence, il fratello di Joe, Tommy, che vive in una comunità di sopravvissuti a Jackson, come pure il leader “religioso” David a capo di un gruppo di cannibali. Quadri visivi che oscillano dal poetico al disturbante, al tossico.
Sul finire del viaggio, nel nono e ultimo episodio, Joel ed Ellie sono tumefatti dalle atrocità viste, sperimentate, ma sembrano in verità rianimati da una consapevolezza nuova: si sentono vivi, quel sentimento che li lega li ha “riparati”, ha ridato loro una famiglia, speranza. Ed è qui che si apre il nodo più problematico, il dilemma morale conclusivo: fino a che punto ci si può spingere per amore? Per quel sentimento che lo lega a Ellie, Joel è disposto a sconfinare nei territori del Male (un po’ come il giudice integerrimo visto in “Your Honor”). Un’istantanea finale che accosta sentimento a rigurgiti disperanti. E spiazza non poco.
Se si è disposti a superare la cornice di genere, fantastico-distopica, come pure una violenza spesso fuori misura, la serie “The Last of Us” è in grado di schiudere un intenso e acuto racconto sociale di un’umanità ferita, spiaggiata, alla fine del mondo. Un’umanità che si muove sul confine sottile tra bene e male, in cerca di (ri)posizionamento. A volte sembrano ben pochi i valori rimasti, dinanzi a una ferocia diffusa e un “egoismo” alimentato dalla lotta per la sopravvivenza, ma qua e là spuntano con intensità anche lampi di speranza, di un’umanità che sa ritrovare (e forse rigenerare) se stessa. Non tutto sembra perduto, soprattutto guardando Joel ed Ellie.
Al di là del binario narrativo mutuato dal videogioco, in “The Last of Us” ben si coglie la firma di Craig Mazin, quel suo stile dolente, poetico e disturbante visto con efficacia in “Chernobyl”, che non può lasciare indifferenti. Una serie sfidante, da più punti di vista, come lo era del resto “Game of Thrones”, per palati forti, ma di indubbio fascino e densità tematica. Complessa, problematica, per dibattiti.
“Extrapolations. Oltre il limite” (17.03, Apple TV+)
Ancora una volta Apple TV+ si distingue con un racconto dall’elevata fattura qualitativa e dai riverberi tematici di stringente attualità. Parliamo della serie “Extrapolations. Oltre il limite” (8 episodi) scritta e diretta da Scott Z. Burns, autore di copioni si successo per Steven Soderbergh (“Contagion”, 2011; “Panama Papers”, 2019) e Paul Greengrass (“The Bourne Ultimatum”, 2007), passato dietro alla macchina da presa con il film di inchiesta “The Report” (2019). Giocata in un futuro prossimo – si parte dal 2037 –, “Extrapolations. Oltre il limite” mette a tema il cambiamento climatico, le devastanti conseguenze sulla natura ma anche sulla vita dell’uomo. Un racconto che alterna lampi di cinica denuncia, istantanee di umanità chiusa in forme di capitalismo selvaggio – dove il dio dominate è il denaro –, a sguardi introspettivi tesi a trovare ispirazione e forza per reagire, per un cambio di passo a livello personale e collettivo. “Come ‘Contagion’ – ha affermato il regista – lo show è stato studiato per puntare i riflettori su ciò che è possibile e forse anche probabile possa accadere, se non troviamo il coraggio di cambiare rotta”.
Gli interpreti giocano in “Serie A” a Hollywood: da Meryl Streep a Kit Harington, da Marion Cotillard a Forest Whitaker, da Edward Norton a Matthew Rhys e Sienna Miller, senza dimenticare Tahar Rahim, Tobey Maguire, Ben Harper, Murray Bartlett, Keri Russell e Gemma Chan.
Quello che convince di “Extrapolations. Oltre il limite” è l’elevata cura formale, quel tratto visivo elegante; un racconto puntellato da una densità tematica, che vede in testa la preoccupazione per il rovinoso cambiamento climatico – Scott Z. Burns ha prodotto anche il documentario Premio Oscar “Una scomoda verità” (2006) con Al Gore –, ma che prova anche a superare il mero confine della denuncia, allargando il campo a una speranza possibile. A giudicare dai primi episodi, la serie possiede qualità stilistiche e narrative, come pure un andamento deciso e compatto. Da vedere. Consigliabile, problematica, per dibattiti.