“Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?. Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questa quarta domenica di Quaresima ci offre un altro stupendo affresco dal Vangelo di Giovanni, un testo miliare, una di quelle scene tra le più solenni e significative a segnare la tipicità della fede cristiana. Gesù si trova ancora a Gerusalemme quando incontra un uomo cieco dalla nascita il quale, a causa della sua menomazione – che segnala una implicita colpa – non può entrare nell’area pura e sacra del Tempio. In ogni malattia o invalidità fisica si cela, infatti, un’impurità e, quindi, un impedimento al rapporto diretto di chi ne è portatore col Santo, con Dio. La ragione di questa dottrina è scritta nel libro dell’Esodo dove si legge: “Il Signore passò davanti a lui, proclamando: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 34,6-7). Ci troviamo nel momento in cui il Dio del Sinai – che aveva interrotto la sua alleanza col popolo a causa del vitello d’oro – torna sui suoi passi e rinnova l’alleanza presentandosi come un Dio ricco di grazia. Nel ricordare che a chi violerà di nuovo la legge toccherà, in ogni caso, un castigo, Dio dice – per bocca di Mosè – che questo colpirà fino alla terza e alla quarta generazione. Una punizione che era prevista anche in altre religioni e culture del mondo antico, dove la colpa dei padri era una hybris, una sorta di macchia sul destino dei figli. Ma qui colpisce l’asimmetria tra il castigo e la ricompensa per Israele: per contro Dio userà misericordia per mille generazioni! Ed ecco che dinanzi a un cieco nato i giudei, non potendo giustificare la cecità con un peccato commesso dall’uomo stesso, ricorrevano a questa soluzione: un genitore doveva aver peccato prima di lui e fatto così ricadere sul figlio o il nipote il castigo della sua colpa. La ragionevolezza di una retribuzione individuale per il peccato si era già affacciata, tuttavia, nel profeta Ezechiele che, a questo proposito, cita, per poi smentirlo, un proverbio: “Mi fu rivolta questa parola del Signore: Perché andate ripetendo questo proverbio sulla terra d’Israele: I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati? …oracolo del Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele …Voi dite: “Perché il figlio non sconta l’iniquità del padre?”. Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutte le mie leggi e le ha messe in pratica: perciò egli vivrà. Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio” (18,1-3.19-20). Ma Gesù supera anche la giustizia dei profeti e alla domanda: “di chi è la colpa?” da cui anche i suoi discepoli si aspettano che venga indicato il responsabile della stessa, risponde con una parola imprevedibile e spiazzante: di nessuno è la colpa! La cecità non è una colpa…ma è posta ad occasione della grazia. Gesù spezza definitivamente il legame tra malattia e colpa, tra danno e delitto, tra il peso del male che possiamo ereditare e l’innocenza della libertà su cui rinasce il nostro futuro, per aprire un varco alla grazia che scioglie la pietra della colpa e libera dal peso del peccato. Le tenebre negli occhi di quell’uomo diventano per teatro e sacramento della potenza della luce che è Gesù stesso: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato…Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Parole che riecheggiano, mentre si realizzano nel miracolo del cieco nato, di quanto annunciato “in principio” dal Vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Del resto anche il Gesù di Luca, nel suo manifesto programmatico esposto nella sinagoga di Nazareth, aveva detto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). La Sua Parola è la luce con cui ogni umano riceve intelligenza, giustizia, libertà, via verità e vita. E noi crediamo che “le tenebre non l’hanno vinta” e mai la vinceranno.