Sanità in affanno. Leoni (Fnomceo): “Senza investire sui professionisti sarà sempre più difficile rispondere ai bisogni di salute dei cittadini”

In Italia mancano all’appello 30mila medici e 250mila infermieri, a rischio il Ssn. “Occorre equiparare gli stipendi di medici e infermieri agli standard europei, migliorare le condizioni di lavoro e la sicurezza degli operatori. La sanità pubblica non è un costo da tagliare sistematicamente ma un investimento, oltre ad essere l’indicatore per eccellenza del grado di civiltà di una nazione”, dice al Sir il vicepresidente Fnomceo

Foto Calvarese/SIR

Secondo il 18° Rapporto Sanità del Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità) dell’Università di Roma Tor Vergata, in Italia mancano all’appello 30mila medici e 250mila infermieri. Il report, presentato nei giorni scorsi, evidenzia che per colmare questo gap, “considerando prudenzialmente come riferimento gli standard riferiti alla popolazione generale e mantenendo le attuali retribuzioni medie, sarebbe necessario aumentare la spesa corrente del Ssn di 30,5 miliardi di euro, ossia del 24%”. Nei Paesi Ocse il valore della spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil è 7,2%; in Italia è scesa dal 7% al 6,3%. “L’aumento preventivato di due miliardi l’anno viene in gran parte bruciato (un miliardo e mezzo) dall’aumento delle tariffe di gas ed energia. Inoltre il trend in salita preventivato nel Covid e post Covid con il ministro Speranza si è invertito”, spiega al Sir Giovanni Leoni, chirurgo generale presso l’ Ospedale Civile di Venezia e vicepresidente nazionale Fnomceo (Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri).

La realtà è sotto gli occhi di tutti: oggi in ospedale i tempi medi per una mammografia sono 720 giorni, 300 giorni per una visita dermatologica, mentre per un’ecografia, una tac o un intervento chirurgico l’attesa può arrivare anche ad un anno. E mentre la Ragioneria dello Stato informa che nel 2021 l’out of pocket, ossia la spesa per prestazioni sanitarie private, è arrivato a 3 7,16 miliardi, +20,7% rispetto all’anno precedente, l’Istat rende noto che l’11% degli italiani ha rinunciato alle cure per motivi economici o difficoltà di accesso ai servizi.

Giovanni Leoni

Dottor Leoni, che cosa sta succedendo?

Tra il 2010 e il 2020 sono stati tagliati 38.684 posti letto e di conseguenza 29.284mila professionisti

solo a livello di medici dipendenti, oggi in totale circa 110mila. Rimanendo invariate le esigenze dei pazienti, con meno letti e meno personale curante i tempi di attesa si sono allungati. Il medico ospedaliero dipendente ha infatti orari di corsia, di guardia e di visite negli ambulatori divisionali. Il Covid-19 ha ulteriormente complicato la situazione bloccando quasi tutte le attività ospedaliere per oltre un anno. A subirne le conseguenze sono i cittadini perché l’allungamento delle liste d’attesa ritarda diagnosi e trattamenti, aggravando potenzialmente le malattie dei pazienti, rendendo più complesse le cure e aumentando il carico di responsabilità dei medici.

Come arginare la fuga di questi ultimi dai pronto soccorso, e più in generale dagli ospedali e dalla sanità pubblica? Il Ssn non è più attrattivo?
Oltre al pronto soccorso, abbiamo specialità come anestesia e rianimazione, medicina interna e chirurgia generale che costituiscono l’ossatura dell’ospedale. Nei nosocomi più piccoli a fare le guardie sono soprattutto gli internisti e i chirurghi con orari pesanti e minore possibilità di fare la libera professione rispetto ad altri specialisti. Molti di loro lasciano gli ospedali perché la carenza di organico si traduce in turni massacranti con stipendi inadeguati rispetto all’impegno, alla fatica e al rischio professionale. Per non parlare delle aggressioni e delle violenze.

Quindi scelgono il privato o diventano medici “a gettone” presso le cooperative…

Il valore del lavoro del medico in questo momento storico lo sta determinando il mercato.

Nelle cooperative il compenso immediato è più alto e migliore la qualità di vita perché, non essendoci ordini di servizio, si può gestire meglio il proprio tempo. Ma il ricorso alle cooperative costa alle aziende circa tre volte la tariffa di un normale medico: dai 40 euro lordi l’ora di un medico dipendente ai 120 euro lordi l’ora dello stesso medico in appalto, con il paradosso che entrambi lavorano spesso gomito a gomito in ospedale.

E poi c’è chi se ne va all’estero…
Dove gli stipendi sono da tre a cinque volte i nostri. Oggi l’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi Ocse per le remunerazioni dei professionisti della salute ma

è un grave errore pensare di garantire la qualità dell’assistenza comprimendo gli stipendi di medici e infermieri.

I nostri professionisti della salute hanno un ottimo livello di preparazione e sono molto quotati all’estero. Negli Usa il gruppo più consistente di medici stranieri è quello italiano. Noi invece siamo attrattivi solo per medici extraeuropei che nei loro Paesi hanno retribuzioni più basse, ma vengono da percorsi di formazione non omogenei, spesso non hanno la specialità e talvolta conoscono poco o per niente l’italiano”.

Il Pnrr dedica ingenti risorse alla Missione 6 Salute, ma non sono previsti fondi per il personale…
No, perché il Pnrr è un piano strutturale che prevede da qui al 2026 diversi interventi di carattere tecnologico e la realizzazione di 1.288 Case della comunità ma questo non è sufficiente a dare risposte esaustive alle necessità di riorganizzazione del Ssn, né ai bisogni di salute dei cittadini. Come verranno coperti gli oneri relativi al personale – amministrativi, medici di medicina generale, infermieri di famiglia – che dovrà avviare a far funzionare queste nuove strutture?

Due emendamenti al Milleproroghe darebbero la possibilità di andare in pensione a 72 anni. Che ne pensa?
Se fosse su base volontaria, perché no? Molti già lo fanno. Se l’attività è congeniale, un medico può continuare ad esercitare dosando gli orari, senza dover lavorare di notte, nei festivi e nei reparti ad alta intensità che sono quelli che registrano le maggiori difficoltà di turn over.

Un tema da sviluppare è anche quello dell’assistenza domiciliare.
Assolutamente sì; a richiederlo sono i mutati bisogni e il progressivo invecchiamento della popolazione, oltre alla necessità di evitare accessi impropri in pronto soccorso e ricoveri in ospedale. Ma questo richiede nuovi modelli organizzativi e un nuovo raccordo ospedale – territorio. Occorre rafforzare i servizi territoriali partendo dalle aggregazioni dei medici di medicina generale che devono però poter disporre di un supporto amministrativo perché la disaffezione dei medici di famiglia deriva anche dal fatto che i giovani vogliono fare i medici e non i burocrati. Alcuni colleghi di medicina generale mi dicono che l’80% del loro tempo è assorbito dagli adempimenti burocratici. Ma in questo scenario generale c’è un grave problema di fondo.

Quale?
Non vengono riconosciute da un punto di vista professionale la competenza e la dedizione del medico nell’affrontare e curare i casi più complessi dei suoi pazienti. Senza investimenti sui professionisti – adeguamenti economici, correttivi sulla programmazione, risorse per nuove assunzioni – sarà sempre più difficile rispondere ai bisogni di salute dei cittadini. Occorre comprendere che

la sanità pubblica non è un costo da tagliare sistematicamente ma un investimento, oltre ad essere l’indicatore per eccellenza del grado di civiltà di una nazione.

 

 

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