“Imparate a fare il bene, cercate la giustizia” (Is 1, 17). È questa affermazione del profeta Isaia che i cristiani del Minnesota (Usa) pongono quest’anno alla riflessione per la Settimana di preghiera (18-25 gennaio). “L’invito che ci viene rivolto attraverso questa parola tratta dal libro del profeta Isaia non è innocuo: è deciso, anzi perentorio”, commenta subito mons. Piero Coda, segretario generale della Commissione teologica internazionale. “Tiene dietro a una dura rampogna che Dio rivolge al suo popolo perché non gli si rivolga più con preghiere e sacrifici senza fare il bene e convertire cuore e mente a quella giustizia che ha la sua sorgente e la sua misura nella fedeltà e nella misericordia di Dio”. Nel sussidio che accompagna la Settimana si elencano “le sfide della divisione” che Isaia fronteggiò nella sua predicazione e sono presenti anche nel mondo di oggi. In particolare le Chiese del Minnesota parlano del pregiudizio razziale. “Anche per noi, oggi – osserva il teologo Coda -, non vale, anzi è intollerabile, fregiarsi del nome di cristiani se non pratichiamo la fraternità e non costruiamo la pace. Un salutare esame di coscienza e l’invito a quella conversione che è l’anima del vero ecumenismo”.
Abbiamo sentito in questo ultimo anno dichiarazioni di fuoco. Lotte. Separazioni… Molti hanno l’impressione di essere di fronte al fallimento storico del cammino ecumenico. Lei come risponde a questa osservazione?
Non il fallimento, ma la messa alla prova delle intenzioni che ci guidano nel cammino verso la piena unità. L’impegno ecumenico non è né un optional né un accessorio nella sequela di Gesù: ne è un criterio di autenticità evangelica e di incidenza storica. La Parola di Dio – scrive la lettera agli Ebrei – è una spada a doppio taglio che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Solo quando ci si sottopone – anche come Chiesa – al vaglio del Vangelo di Gesù si può camminare seriamente sulla via dell’unità. Altrimenti si è prigionieri della logica di questo mondo e non solo si resta separati ma ci si allontana….
Si alza forte il grido di lavorare per la riconciliazione dei cuori come unica via per costruire la pace. Ma come si favoriscono percorsi possibili di fraternità? Da dove ripartire in un momento fortemente messo alla prova?
L’unità si fa “in cammino”, ha sottolineato Papa Francesco. Bisogna cioè riscoprirsi come quell’unico popolo di Dio pellegrinante nella storia di cui parla il Vaticano II. Valorizzare dunque tutto ciò che già ci unisce: ed è tantissimo! E camminare insieme in tutte le occasioni che in concreto ci sono offerte. Penso sia un segno importante il fatto che il Papa, la scorsa domenica all’Angelus, quasi in esordio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, abbia annunciato che il 30 settembre si celebrerà una veglia ecumenica di preghiera per affidare a Dio i lavori dell’Assemblea del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità: che è appunto il “cammino insieme” del popolo di Dio.
Le Chiese del Minnesota nel proporre il tema di quest’anno propongono alle Chiese di lavorare insieme per fare del bene e cercare la giustizia. Perché ora e cosa significa?
Perché ora viviamo davvero, tragicamente, una terza guerra mondiale a pezzi! Fare tutto ciò che è possibile, e persino immaginare – in ascolto dello Spirito Santo – ciò che umanamente appare impossibile non essendolo agli occhi di Dio, è un imperativo per tutti i discepoli di Gesù. Significa esplorare tutte le vie per farsi insieme, come comunità cristiana, “ospedale da campo” che si prende cura di tutti coloro che sono vittima, direttamente o indirettamente, dell’odio o dell’indifferenza.
Si è sempre detto che se le Chiese sono divise tra loro, la testimonianza del Vangelo nel mondo, i valori della fraternità e della pace, i principi della solidarietà e del bene comune, tutto si indebolisce fino a diventare del tutto insignificante. Alla luce della situazione attuale quale via ecumenica da percorrere?
Dal nostro mondo – e non penso soltanto alle situazioni di guerra guerreggiate – sale un grido di dolore profondo e diffuso. C’è bisogno di segni di speranza concreti e credibili. E oggi più che mai Gesù rivolge ai singoli cristiani e alle comunità cristiane la sua parola semplice e chiara: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli”, e ci assicura che quando tornerà e radunerà tutti i popoli della terra non ci chiederà se siamo stati cattolici, ortodossi o protestanti: ci chiederà se l’abbiamo riconosciuto e accolto affamato, assetato, straniero, nudo, malato o in carcere. Non perché vuole indebolire il nostro impegno a camminare verso l’unità, ma perché vuole riportarci a ciò che è essenziale per accoglierla, l’unità, come il dono che egli ha chiesto al Padre per noi a testimonianza per tutti.