La Chiesa ucraina ha un nuovo vescovo: mons. Maksym Giosafat Ryabukha. Giovane, ha 42 anni, salesiano, fino a poche settimane fa direttore di un oratorio a Kyiv, adesso vescovo ausiliare greco-cattolico di Donetsk, don Maksym ha ricevuto l’investitura il 22 dicembre 2022 nella pro-cattedrale della Resurrezione di Cristo nella capitale del Paese poco dopo l’ennesimo allarme missilistico.
Eccellenza, lei è diventato vescovo in una cattedrale piena di luce, di gioia e di pace mentre fuori la guerra non dava tregua. Una contraddizione, almeno in apparenza. Cosa significa tutto questo?
Io credo che significhi che la speranza non deve mai morire, nemmeno sotto le bombe, nemmeno quando l’uomo sembra aver abbandonato ogni sembianza umana. È vero che nella cattedrale c’erano pace e gioia, ma il dolore non è stato dimenticato, non può essere dimenticato. Eppure deve sempre vincere il sentimento della pace, della gioia in Dio.
Lei è vescovo di una diocesi il cui territorio è zona di guerra, occupato dai russi. Laggiù non c’è pace.
Laggiù come in molti altri luoghi dell’Ucraina e non solo. La pace occorre costruirla con tenacia, determinazione, volontà, pazienza. La pace è un bene prezioso del cui valore ci si rende conto quando la si perde. Noi ucraini lo sappiamo bene. Le regioni di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Dnipropetrovsk che sono la mia nuova casa, sono adesso devastate dagli orrori della guerra. So bene che non posso andarci subito, ma attraverso i preti che risiedono là ho già ricevuto molti messaggi di vicinanza. A tutti voglio dire che sono già lì con il pensiero e che il Venerdì Santo non è la fine del piano di salvezza di Dio.
Cosa significa essere prete e vescovo in zona di guerra?
Prima di tutto affrontare con la propria gente le privazioni, i dolori, la paura, la fame, il freddo, le necessità materiali. Poi pregare per le persone che soffrono e pregare con loro. Pregare per tutti. E non dimenticare l’esigenza di giustizia, il diritto alla vita, la santità della vita.
Perdonare è difficile?
Il dolore e le ingiustizie sono difficili da superare. È difficile superare le migliaia di caduti in una guerra assurda, le centinaia di fosse comuni, le case distrutte, l’odore di morte. È tutto difficilissimo. È complicato parlare di riconciliazione tra russi e ucraini. Perdonare? Io credo che ognuno abbia un proprio passo verso il perdono: alcuni riescono a corrergli incontro, altri si fermano, altri ancora indietreggiano. Ogni persona umana è debole. Per questo serve Dio.
Lei nel breve intervento che ha fatto il 22 dicembre in cattedrale ha detto molte volte grazie.
Certamente. Grazie è una parola che ispira e dà vita! E occorre essere riconoscenti per quello che si è, per il percorso di vita fatto, per le persone che si sono conosciute. Io sono convinto che dire grazie sia segno di grande forza e di umiltà insieme.
Quanto conta essere salesiano?
Moltissimo. Lungo il cammino di vita salesiana Dio ha plasmato il mio cuore, ha costruito la mia prospettiva, ha confermato le mie convinzioni, mi ha reso ricco di tante esperienze. Da Don Bosco ho imparato cosa significhi l’amorevolezza, per la quale l’età non ha limiti. Il sistema preventivo di educazione ha un senso e sarà sempre il segno carismatico del mio ministero. I giovani sono incredibili, brillanti, sorprendenti. La loro capacità di alzare lo sguardo e sorridere anche nei momenti più drammatici sono una fonte incredibile di forza e di speranza per me.
In questi giorni il calendario indica che è Natale.
Certamente, ed è un Natale unico, speciale, irripetibile. Oggi siamo immersi nel clima di Giuseppe e Maria che viaggiavano in un mondo avvolto ormai da una tenebra così profonda da non vedere nulla intorno. Ma la luce del Bambino, del Dio fattosi uomo, del Dio con noi, quella luce ha cambiato tutto. Siamo testimoni di momenti storici straordinari nella loro ordinarietà, dei momenti in cui Dio cambia il mondo portando la salvezza. L’Amore che trasfigura tutto, l’Amore di fronte al quale nessuna tenebra può resistere.