(da Mykolaiv) Giacomo ha appena accompagnato Natalia a casa. Sebbene abiti a pochi metri dal rifugio, in un palazzo dall’altra parte della strada, questa anziana signora non se la sente di stare da sola e da quel 24 febbraio ha deciso di vivere in un rifugio insieme ad altre persone che ora sono la sua famiglia. A casa, deve aprire a due operai che le vanno a sistemare le finestre esplose nei primi giorni di guerra. “Come sente un rumore, sobbalza dalla paura”, racconta Giacomo. “Sono stato con lei fino adesso. Mi ha detto che potevo andare e che non era necessario riandarla a prendere. Sarebbe ritornata da sola”. Giacomo Ceruti, 24 anni, di San Donato Milanese, una laurea in scienze politiche, è uno dei due ragazzi italiani che hanno deciso di vivere per un periodo di tempo a Mykolaiv. L’altro operatore umanitario è Matteo Pisani, 37 anni, fisioterapista. Con la moglie a Bologna hanno una casa famiglia dove attualmente vivono 4 figli e altri due bimbi “rigenerati dall’amore”. La loro vita in questi giorni trascorre così, facendo semplicemente quello che fanno tutti a Mykolaiv.
È l’“Operazione Colomba”, realtà nata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, con l’idea di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra. Nel rifugio di Mykolaiv c’è tantissimo da fare. Arrivano tir carichi di aiuti umanitari e i due ragazzi italiani danno una mano a scaricare gli scatoloni, sistemare i magazzini, riempire i pacchi. Ogni giorno partono da questo centro, pulmini che distribuiscono aiuti non solo in città ma anche nei villaggi vicini, quelli rimasti per mesi sotto l’occupazione russa senza accesso ad acqua potabile, cibo e beni di prima necessità. Domenica scorsa, dopo la messa, sono stati distribuiti 500 pacchi. “Sono qui – spiega Matteo – perché non esistono vite di serie A e di serie B. Ogni vita ha un valore e merita di essere preservata, sostenuta e difesa. Siamo qui per questo. Per dire che la nostra vita non è più importante di quella degli altri e per camminare insieme”.
Non c’è solo il lavoro “umanitario” per quanto sia utile, anzi vitale. Giacomo e Matteo sono soprattutto una presenza: dormono in una stanza del rifugio, mangiano con loro, chiacchierano, tengono compagnia, insegnano i giochi delle carte italiane. “Noi qui non stiamo salvando nessuno”, precisa Matteo. “È solo un cammino che facciamo insieme ad altri, senza sapere quale sia la nostra destinazione finale. Penso che la rivoluzione sia proprio questa: passare da un approccio di assistenzialismo al desiderio di condividere pezzi di strada insieme. Vivendo così, ci accorgiamo che le ingiustizie vissute sulla pelle dell’altro diventano le nostre e questo avviene non per un atto di buonismo ma perché andandole a trovare, si capisce cosa le persone vivono e di cosa hanno bisogno e per questo farò di tutto, come che fossero miei fratelli, per cercare di alleviare le loro sofferenze”.
Giacomo è arrivato a qui a Mykolaiv dopo aver partecipato a giugno alla Carovana della Pace che si è ripetuta poi a settembre, portando in città pulmini carichi di aiuti umanitari. Un’iniziativa promossa da oltre 175 organizzazioni italiane racchiuse nella sigla #Stopthewarnow. “Le persone che ho rivisto da allora – racconta – le ho ritrovate molto stanche e provate. Vivere per 9 mesi un conflitto ed essere costretti stare in un rifugio condividendo con altre persone gli stessi spazi per tanto tempo senza mai avere un momento di privacy durante la giornata, è davvero pesante”. Matteo e Giacomo sono diventati ormai parte di questa famiglia allargata. “Se dovessi dire cosa mi ha colpito di più di tutto questo periodo – confida Giacomo – non è paradossalmente né la loro stanchezza né il loro dolore ma l’affetto con cui mi hanno accolto. Si rendono conto che tu vieni da un paese lontano, facevi una vita normale ed hai dei progetti ma ciò nonostante hai scelto di condividere con loro la vita di tutti i giorni con le sue difficoltà ma soprattutto con i pericoli di un conflitto in corso”. Che cosa è la guerra? “Una cosa bruttissima”, risponde subito Matteo e Giacomo aggiunge: “È una cicatrice indelebile. Anche se domani la ferita smettesse di sanguinare, ti rimarrà per sempre addosso”. “Ferite – continua Matteo – che faranno fatica a guarire. Mi chiedo quanti anni ci vorranno per curare questi cuori. Ma questo conflitto sta lavorando anche su di noi che continuiamo da fuori a vedere nello scontro armato una soluzione alle controversie internazionali”. “Noi siamo convinti che la risposta alla risoluzione del conflitto non è la forza armata. Siamo qui con le persone e non per le persone. Siamo qui per far capire che non sono soli”.
Tra i motti “cari” dell’Operazione Colomba ce ne è uno che dice così: “se mi ami veramente, inventa qualcosa che io non possa immaginare”. È quello che questa “presenza” sul campo sta generando. Stando a fianco delle persone sul posto, gli operatori si sono accorti delle loro esigenze e quella che più ha colpito per urgenza è la mancanza di acqua potabile. La prima cosa infatti che hanno fatto i russi è stata quella di bombardare e distruggere il sistema di depurazione dell’acquedotto pubblico. Da allora la popolazione non ha più avuto accesso ad acqua pulita e potabile. È così partita una gara di solidarietà sostenuta dalle associazioni della Rete #StopTheWarNow che ad oggi ha consentito l’istallazione sul posto di 5 dissalatori e il finanziamento di altri 7. L’obiettivo finale è raggiungere almeno una quota di 25/30 dissalatori così da consentire l’accesso ad acqua potabile in tutta la città. Un’iniziativa che nasce per soddisfare certamente un bisogno ma diventa, grazie alle carovane della pace e alla presenza di operatori come Giacomo e Matteo, il “segno” che è possibile, anche in terre ferite dalla guerra, creare soluzioni di pace. “Solo stando con le persone che vivono in contesti di guerra – spiega Gianpiero Cofano, coordinatore della Rete StopTheWarNow – noi possiamo immaginare e pensare insieme a loro soluzioni di pace. Non solo provvedere ai loro bisogni ma capire con loro quali sono le soluzioni non violente di risoluzione di conflitto, di ogni conflitto dove noi scegliamo di abitare. Lenire le ferite significa costruire soluzioni e piani di pace, altrimenti è come se anche noi ci rassegnassimo all’evidenza della violenza. E invece no, noi siamo lì perché vogliamo essere uomini portatori di pace”.