Il 21 novembre forse non tutti sanno che si celebra la Giornata mondiale della televisione. È stata istituita nel 1996 dalle Nazioni Unite in occasione del primo “World television forum”, che si tenne a New York in quell’anno. Era ed è un modo per riconoscere ufficialmente l’importanza del mezzo di comunicazione di massa più influente del mondo, che a distanza di un quarto di secolo resta tale nonostante il proliferare di altri strumenti. Anche in Italia è così.
La rilevazione dei consumi mediatici nostrani evidenzia che la televisione, in tutte le sue forme di trasmissione e di fruizione, occupa il primo posto tra i media degli italiani, pur perdendo progressivamente punti percentuali di utenza rispetto al passato. La tv tradizionale (digitale terrestre) cede qualche telespettatore, confermando però un seguito elevatissimo. La tv satellitare sembra ormai essersi stabilizzata intorno a quote di utenza che si avvicinano alla metà degli italiani. Cresce la tv via internet (web tv e smart tv hanno) ed è decollata la mobile tv, segno dell’uso sempre più diffuso degli smartphone.
La televisione negli ultimi venticinque anni è dunque cambiata, ma non è in crisi.
In crisi è il televisore, che non è più il totem in casa, con il salotto predisposto in base alla posizione del teleschermo. Cambia di conseguenza, come accennato, il modo complessivo di fruire la televisione, ma anche gli altri media. Un tempo la tv era fatta per vedere, la radio per sentire e il telefono per parlare. Pensiamo ora a quante cose facciamo con un telefonino. Di conseguenza ulteriore cambia il modo di percepire la realtà perché appunto sempre più mediata da questi strumenti dai quali passa ormai la nostra esperienza di vita, ovviamente sempre più virtuale e individuale. Infatti, quello che è molto diminuito con la crisi del televisore è anche la fruizione collettiva in base a palinsesti predisposti da altri. Adesso ognuno si fa i suoi palinsesti e vede la tv quasi sempre da solo, in privato, sul proprio pc, l’iPad o lo smartphone, privilegiando sempre di più le piattaforme on line, soprattutto i telespettatori più giovani. In questo nuovo modo di fruire la tv, l’illusione della visione collettiva è data dai commenti sui social. Sempre più programmi tv propongono l’interazione con facebook, twitter e gli altri social network, che alla fine comporta anche una visione più distratta e per certi versi più massificante.
Intanto la tv tradizionale, generalista, si conferma un prodotto per vecchi. Da qui anche le tante operazioni nostalgia che si traducono in format televisivi con protagonisti in età sempre più avanzata (presentatori, cantanti, attori…).
Nei vari passaggi epocali, si può dire che adesso, da un punto di vista televisivo, siamo proprio nell’era dei format, che non sono la semplice riproposizione di un programma già esistente in un altro Paese. Il format non è solo remake. È qualcosa di più. Jean K. Chalaby, nel suo L’era dei format, lo definisce “la struttura di uno show in grado di generare una narrazione caratteristica e i cui diritti sono concessi su licenza al di fuori del Paese d’origine per un adattamento destinato al pubblico locale”. A parte la definizione più o meno tecnica, si può dire che un format non è solo l’idea, ma “un nucleo di regole e principi immutabili” paragonabile a una ricetta di cucina in cui vengono forniti non solo gli ingredienti, ma anche i metodi di cottura e gli strumenti per realizzarla e portarla in tavola.
Per fare un esempio dell’incidenza dei format, basti pensare a come sono cambiati i telequiz, che tra l’altro adesso si chiamano game show: prima il concorrente valeva per la sua preparazione e poteva non essere telegenico, anzi: poteva essere pure antipatico e scarsamente atletico. Poi si è teso a creare il personaggio, presentando anche il lato umano. Adesso il concorrente è una sorta di spalla del presentatore, deve interagire con lui e non avere problemi fisici.
Nella nuova televisione un ruolo importante è stato assunto dai cosiddetti reality show (programmi con finalità d’intrattenimento basati su elementi di realtà), dai factual (programmi che seguono le vicende di persone comuni nella loro quotidianità o al di fuori delle loro esperienze ordinarie) e dai talent show (spettacoli basati sulle esibizioni di artisti non professionisti, che ambiscono però a diventarlo).
Ma parlando di piattaforme, che rappresentano il presente e il futuro prossimo della tv, la vera novità sono le serie televisive verso le quali l’attrazione fatale è notevole, sia da parte dei telespettatori che degli autori. Le serie attraggono un pubblico anche colto e intelligente, che un tempo si rifiutava di vedere la tv considerandolo un prodotto di sottocultura. Adesso le serie sono note a tutti e hanno raggiunto un prestigio culturale prima riservato solo al cinema d’autore.
A questo proposito stiamo assistendo a una vera e propria fuga dei registi dal cinema. In molti rinunciano al grande schermo per il piccolo, per la possibilità di un racconto ampliato, sviluppato senza limiti di durata e senza una logica temporale, con nuove tecniche di ripresa e con la massima libertà creativa e interpretativa, senza nessun tipo di censura.
C’è uno studioso della serialità televisiva, Gianluigi Rossini, che nel suo volume Le serie tv riassume molto bene quanto fin qui raccontato: “La televisione quindi non sta affatto sparendo, ma i mutamenti da essa subiti costringono a ridefinire il concetto di “televisione”, intesa non come una tecnologia ma come un insieme di pratiche sociali. Se nell’era classica il medium aveva una forma unitaria e veniva prodotto e consumato in modo sostanzialmente uniforme, dobbiamo adesso riconoscere la compresenza di molteplici “modi della televisione”, usi diversi che investono più tecnologie e più funzioni sociali”.
Insomma, una giornata mondiale vale per quello che vale, ma i motivi per continuare a tenere d’occhio e studiare la televisione nelle sue trasformazioni sono ancora tanti e vanno ben oltre il 21 novembre.
(*) pubblicato su “Toscana Oggi”