Per tentare di immaginare – ovviamente senza velleità predittive – cosa ci si potrebbe attendere dal vertice Biden-Xi a margine del G20, importa partire da alcuni dati. Uno è il modo in cui i due arriveranno a Bali. Entrambi hanno superato una prova elettorale, ciascuna con esiti diversi eppur convergenti in una qualche forma (piena per Xi, dimidiata per Biden) di conferma che ha consentito loro di testare anche il polso del potere/consenso interno.
Xi ha affrontato il Congresso Pcc investendo molto sul tema patriottico del Risorgimento cinese, che nel 2049 disegna una Cina con il pieno controllo sulle periferie prossime (inclusa Taiwan) e lanciata verso il dominio del Mar cinese meridionale e il libero accesso al Pacifico. Nel delineare ciò, nella sua relazione programmatica il termine più ricorrente è stato “sicurezza”. Ora, dopo essersi sbarazzato nel Politburo della principale corrente avversaria, può tuttavia dedicarsi con maggiore realismo alle questioni interne, legate alla ripresa economica post-pandemica, i cui stenti, assieme alle misure restrittive, hanno causato espressioni di malumore sociale. E con ciò dedicarsi al potenziamento dei flussi commerciali e al reperimento di nuovi investimenti esteri necessari alla crescita. Per tale ragione, tra le prime esternazioni rivolte all’esterno di Xi subito dopo la riconferma c’è stato il messaggio al National Committee on Usa-China Relations, che è suonato come un invito alla Casa Bianca a individuare ambiti di cooperazione paritaria e reciprocamente legittimante vantaggiosa per entrambi su scala globale.
Anche Biden ha tenuto fede al principio per cui, nel rinnovo diretto o indirettamente fiduciale delle cariche monocratiche di vertice, i temi di politica estera e securitaria usualmente promettono una qualche remunerazione, specialmente se richiamano alla coesione e distolgono dalle lacerazioni e da problemi di legittimazione interna. Sicché la postura di Biden è stata conforme alla cifra antagonistica atta a rappresentare gli indirizzi cinesi come minaccia all’interesse nazionale offshore degli Usa. All’indomani delle midterm, che hanno reso il nesso Casa Bianca – Congresso un’anatra meno zoppa (ma comunque zoppa) delle attese, Washington ha risposto al suddetto invito di Xi, individuando l’occasione del G20 per abbozzare “aree di cooperazione” (si noti la prossimità con i termini usati dal leader cinese) su questioni particolarmente sensibili per la governance globale.
A Bali gli Usa possono portare in dote gli investimenti di cui Pechino necessita. Ma può anche offrirsi come regista delle relazioni tra la Cina e l’Europa urgentemente bisognosa di compensare la rottura delle partnership russe, ciò permettendo a Washington anche di non vedere aggirato il proprio controllo da iniziative di abboccamento con Pechino condotte singolarmente da Paesi come la Germania. E può persino adombrare un allentamento ai veti recentemente posti da Washington e – per induzione – da diversi gregari europei nell’esercitare il golden power sulle acquisizioni nel mercato tecnologico tentate da aziende cinesi.
Per chiedere quale contraccambio? La distensione certamente fruttuosa anche sul versante interno, considerando che, in caso di ulteriori fibrillazioni internazionali, una Camera bassa a maggioranza repubblicana potrà non assecondare qualsiasi indirizzo della Casa Bianca gratis et amore Dei. Distensione che anzitutto dovrebbe riguardare, almeno per un certo lasso di tempo, l’atteggiamento pratico di Pechino nei confronti di Taiwan. Ma una distensione suscettiva anche di attenuazioni in ordine all’attivismo cinese nel cercare di aprire porti e persino basi militari sulla costa atlantica dell’Africa.
In relazione all’Asia, potrà tornare a chiedere alla Cina di esercitare il suo innegabile ascendente sulla Corea del Nord, per contenerne le agitazioni dimostrative, che non di rado si attivano quando Pyongyang lancia, per il tramite dei suoi missili, la richiesta ai suoi “amici” di risorse necessarie al proprio sostentamento, in cambio di tranquillità. Si consideri infatti il disagio cinese per le esagitazioni nordcoreane, che periodicamente attirano le portaerei Usa, facendole avvicinare sino alle porte del Mar Giallo.
Infine, c’è il capitolo della guerra russo-ucraina. L’agenda dell’incontro le conferirà un inevitabile rilievo.
Certo potrà cercare di sfruttare il “disagio” che Pechino nutre nei confronti del partner russo (da Putin stesso riconosciuto nel recente summit di Samarcanda). La destabilizzazione provocata dal Cremlino turba alquanto i piani geoeconomici del Dragone. Il quale non intende ricavare dall’associazione con la Russia un danno anche in immagine che rischia di compromettere il soft power che la Cina va costruendosi per accreditarsi a diverse latitudini come superpotenza rassicurante.
Washington potrebbe ottenere da Pechino la disponibilità a sottrarsi come stampella della Russia anche giocando sulle antiche ambizioni cinesi su territori controllati da Mosca, magari per sostituire la sua influenza egemonica sulla regione centroasiatica, per gestirne direttamente la stabilità in funzione delle Vie della Seta, altresì guadagnando, con il controllo dei Paesi –stan, ulteriori e diversificate fonti di approvvigionamento energetico.
Tuttavia, l’affare Russia e l’obiettivo di una convergenza risolutiva sulla guerra non può costituire una conditio sine qua non per tutto il resto: laddove dovesse mostrarsi uno scoglio, è presumibile che venga messa tra parentesi non ostative, a tutela degli altri dossier, che pure Washington reputa oltremodo importanti per la configurazione relazionale della sua leadership planetaria nel nuovo corso che intende aprire.
La Cina infatti, nonostante le prospettive allettanti, potrebbe temere di agevolare un processo di avvitamento così dannoso per la Russia da causare la caduta di Putin come pure lo smembramento della Federazione, aprendo all’incognita di un’instabilità estremamente pericolosa sulla medesima piattaforma continentale. Pur giudicandola una potenza tradizionalmente e naturalmente rivale, se non altro per via della contiguità fisica, finora la Cina ha tratto profitto dalla Russia in quanto solido diaframma, involontariamente protettivo rispetto alle ingerenze occidentali in Asia.
Ciò non toglie che già l’annuncio dell’incontro a Bali, indipendentemente dalle risultanze, esercita una certa pressione sul Cremlino, il quale può sospettare nell’iniziativa la disponibilità bilaterale a una conventio ad excludendum che le ingiunge di mostrarsi profondamente collaborativa ai fini della cessazione del conflitto. L’abilità politica di Usa e Cina, in tal caso, dovrà consistere nel fornire una exit option onorevole. Per evitare le risposte inconsulte di chi, messo con le spalle al muro, può decidere di giocarsi il tutto per tutto. Considerando inoltre che, in extremis, la situazione potrebbe sfuggire di mano persino a un Putin non più in grado di controllare l’establishment più oltranzista del regime.