Giungendo in Kazakistan e incontrando le autorità presenti nel Paese, Papa Francesco, nel leggere la realtà e disegnare scenari, ha fatto appello alla necessità di “leader che a livello internazionale siano in grado di favorire la comprensione il dialogo tra i popoli”. Che la carenza di leadership sia una delle questioni fondamentali nell’assetto delle nostre società ne siamo pienamente coscienti e consapevoli. Del resto di fronte a crisi ed impasse, siamo soliti auspicare la presenza di classi dirigenti in grado non solo di esercitare funzioni e poteri, ma soprattutto di esprimere autorità e prima ancora, autorevolezza. E di questo necessita la dimensione internazionale dove le grandi questioni non sono solo dibattute, ma hanno bisogno di trovare risposte, di dipanare intrecci e contrasti sempre in agguato. Il tutto per prevenire, risolvere o almeno regolare dispute e incomprensioni che rischiano di degenerare in conflitti non solo sanguinosi nell’immediato, ma destinati a protrarsi nel tempo e a lasciare un numero incontrollato di vittime. Ormai la guerra, volutamente è senza regole e si impone senza distinguere tra obiettivi e mezzi, tra civili e combattenti.
Quello di Francesco, dunque, non può essere letto come un semplice auspicio o come un dover essere tanto ipotetico quanto irragionevole rispetto agli atti e ai fatti della cronaca quotidiana.
È una necessità resa evidente dalle parole del Papa nel riferirsi non solo ad ipotetici conflitti, ma a quelli in essere, a quello determinato dalla “invasione dell’Ucraina”.
Una guerra che pone in modo inconfondibile la carenza di leadership anche in un contesto geopolitico come quello europeo, per anni ritenuto immune da tale pericolo. Anzi una carenza che sta giocando in questo momento un ruolo fondamentale, lì dove il sembra ormai che a dialogare possano essere solo le armi sui campi di battaglia e non più gli sforzi della diplomazia, la capacità di dialogo, di persuasione e finanche di imposizione propri dell’azione politica. Non si esita a sostenere che la diplomazia resta a guardare, impotente e senza prospettive. Ma questo può essere vero se l’obiettivo è la soluzione radicale e rapida dei conflitti, perché dimentica che l’attività diplomatica è per sua natura discreta, capace di tessere una tela resa pubblica soltanto quando è completata rispetto a ciò che si propone. E non è un caso che in Kazakistan il Papa abbia ricordato un processo fondamentale costruito dalla diplomazia e da una leadership fortemente motivata e desiderosa quantomeno di dialogare. Lo ha fatto quando ha richiamato la necessità di generare un “nuovo spirito di Helsinki”. Evocare Helsinki, cosa sia stato quel processo, cosa abbia rappresentato quell’esperienza è noto non solo agli addetti ai lavori, ma rimane una realtà evidente nell’immagine di un’Europa uscita dalla logica dei blocchi e della contrapposizione, magari moltiplicando i suoi confini interni con la nascita di nuovi Stati e il declino di potenze protettrici o facilmente espansive.
Un processo che a partire dal 1967 significò l’incontro tra leader ad ogni livello, animati dal solo desiderio di dialogare per costruire nuovi orizzonti e nuovi scenari che affiancavano il termine pace alla sicurezza e alla cooperazione.
Leader erano gli ambasciatori dei Paesi accreditati in Finlandia che, dopo “l’appello di Budapest” lanciato dal blocco sovietico, settimanalmente si riunivano per “prendere un tè” e trovare un momento per discutere, parlare e poi dialogare, pur essendo su posizioni ideologiche, politiche, economiche e non ultimo militari inizialmente contrapposte.
Leader furono i capi di Stato e di governo che il 1° agosto del 1975 firmando l’Atto finale di Helsinki, pur consapevoli che gli effetti di quel documento non sarebbero stati immediati e obbliganti, ma coscienti di aver posto un pilastro alla fine di una guerra, non solo “fredda”, che costernava i popoli europei. Leader consapevoli altresì di mettere in discussione sistemi e visioni del vivere e governare tra loro contrapposte, ognuno delle quali pretendeva di essere la migliore.
Leader sono state quelle personalità che ispirandosi all’Atto di Helsinki riuscirono a costruire all’interno dei singoli Paesi dei movimenti capaci di coinvolgere la società civile e destinati poi a ribaltare ideologie, dittature, sistemi complessi che sembravano monoliti indistruttibili.
Da leader agirono gli statisti fautori dell’incontro di Parigi nel novembre del 1991 che, nello spirito di Helsinki, disegnarono la Carta della nuova Europa in cui il superamento dei conflitti non era più legato alla deterrenza, magari atomica, ma ad una profonda capacità di dialogo e di riconoscimento del bene supremo che è la persona, con la sua dignità, con le sue aspettative ed aspirazioni.
Leader furono i protagonisti di quel processo che legarono le nuove prospettive al rispetto di alcuni principi fondamentali per la vita dei popoli che oggi sembrano dimenticati: non aggressione, intangibilità delle frontiere, o il più generale divieto di usare la forza armata per risolvere ogni forma di conflittualità tra gli Stati; ma poi ancora, il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali tra i quali spiccava quel diritto alla libertà di religione visto non come semplice libertà di culto o di un individuale scelta di fede del singolo, ma come diritto di libertà espresso nel comportamento di persone e di comunità in grado di proporre anche indicatori e soluzioni per la vita e l’assetto delle società. Un diritto capace di rendere i credenti protagonisti, perché in grado di concorrere ad unire e non a contrapporre.
Questo lo “spirito di Helsinki” invocato a Nur-Sultan da Papa Francesco ed affidato a leader capaci di “esprimere la volontà di rafforzare il multilateralismo, di costruire un mondo più stabile e pacifico pensando alle nuove generazioni”.
Compito arduo, obiettivo irrealizzabile? Certamente traguardo non facile, ma che, se voluto, è possibile raggiungere mediante un approccio inclusivo che significa capacità di mutua comprensione tra gli Stati, paziente attenzione a ricercare soluzioni, rispetto dell’altrui indipendenza e sovranità, volontà di dialogo con ciascuno e con tutti. Un approccio che abbatte interessi particolari di fronte ad esigenze collettive e nel quale ogni attore dei rapporti internazionali si libera dal sentirsi unico e perciò potente. Senza che nessuno possa sottrarsi.