“Sono triste perché mi dispiace lasciarvi e terminare questa esperienza di cui ringrazio ognuna e ognuno di voi. In questo auditorium è risuonata la parola potente e profonda: ‘Benedetto l’uomo la cui fiducia è il Signore’. Eravamo arrivati qui con i nostri fardelli, eppure ci siamo messi in gioco per vivere insieme un’esperienza di comunione in mezzo a uomini e donne che vivono e pregano in modo diverso, ma che abbiamo potuto ascoltare e con i quali abbiamo potuto discutere, condividere i pasti, sentire che abbiamo molto in comune. Siamo chiamati insieme a costruire una nuova storia che si nutra della speranza di poter camminare insieme curando il dolore, le ferite, le tragedie dei secoli passati”. Lo ha detto Erica Sfredda, presidente del Sae, nell’intervento conclusivo della 58ª Sessione di formazione promossa ad Assisi, dal 24 al 30 luglio. “In questi giorni abbiamo capito che la crisi non è solo negatività ma ci sprona alla conversione al Signore, ci restituisce la forza di vivere e la fiducia in Dio. Abbiamo sentito che siamo confusi, fragili, ansiosi e sperimentiamo una fede nuda che può diventare un’opportunità”.
La presidente del Sae ha osservato che lo svuotarsi delle chiese, messe alla prova da questo momento storico, quasi prive di capacità generativa, “ci chiama al cambiamento, ci chiede di fare silenzio e di ascoltare la voce di Dio. Perché è proprio il Signore che ci strappa dalla disperazione e dal lamento e ci fa guardare il mondo con i suoi occhi. In questa luce improvvisamente possiamo capire cosa significhi costruire il presente a partire dal futuro. E dopo esserci riconosciuti nelle obiezioni di Mosè alla chiamata di Dio, che riconosciamo e sentiamo vere, abbiamo sentito nostre anche le motivazioni di Mosè a partire. E ci siamo messi anche noi in cammino insieme, ognuno con il suo zaino, condividendo, mantenendo le nostre individualità e sentendo la ricchezza umana, spirituale, teologica, liturgica di chi ci stava accanto. Abbiamo capito che entrare in relazione tra noi significava anche entrare in relazione con Dio e abbiamo fatta nostra una profonda verità: c’è un riconoscimento, una chiamata prima che una conoscenza, perché Dio ci chiama a prescindere da quello che abbiamo scritto e detto di Lui”. E dunque “possiamo accogliere la sfida di diventare catalizzatori di speranza, testimoni nel mondo attraverso le nostre vite di una speranza che non delude. Quindi quello di oggi non è un addio ma è un arrivederci. Ci lasciamo con un po’ di tristezza ma siamo anche consapevoli della gioia che ci portiamo a casa e sappiamo che il nostro compito è testimoniare nelle nostre vite, nelle nostre comunità e chiese quello che abbiamo ricevuto e di cui ci facciamo a nostra volta donatori”.