La preghiera silenziosa nel cimitero della scuola di Ermineskin, simbolo delle 139 scuole residenziali – molte delle quali gestite dai cattolici – dove 150milla bambini sono stati strappate alle loro famiglie, divenendo vittime di “abusi fisici, psicologici e verbali” per le politiche di “assimilazione” del governo. È cominciato così il 37° viaggio apostolico del Papa, che in questi giorni in Canada continua il “pellegrinaggio penitenziale” iniziato quattro mesi fa a Roma con le popolazioni indigene. Incontrando a Maskwacis le popolazioni indigene First Nations, Métis e Inuit Francesco cita le due paia di mocassini avute in dono proprio dagli indigeni canadesi nel corso degli incontri in Vaticano, mantenendo la promessa di restituirli una volta approdato nelle loro terre. Poi bacia la bandiera con i nomi di tutti i bambini che non sono più tornati nelle loro case. “Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione”, l’obiettivo del viaggio, spiegato già nel suo primo discorso, all’insegna – come gli altri che lo hanno preceduto – di tre sentimenti: dolore, indignazione e vergogna. “Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali colpisce, indigna, addolora, ma è necessario”, la tesi del Papa. Al cuore del primo discorso in terra canadese, la richiesta di perdono:
“Chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali”.
“Si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo”, la denuncia: “Addolora sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti”. “Di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli”, il “mea culpa” del Santo Padre:
“Vorrei ribadirlo con vergogna e chiarezza: chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene”.
“Le scuse non sono un punto di arrivo”, ma solo il punto di partenza, assicura Francesco, secondo il quale una parte importante del processo di riconciliazione
“è condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti”.
“Oggi sono qui a ricordare il passato, a piangere con voi, a guardare in silenzio la terra, a pregare presso le tombe”, il riferimento alla sosta in preghiera nel cimitero che ha preceduto l’incontro. Ad Edmonton, nella Chiesa del Sacro Cuore incontrando la comunità parrocchiale “aperta e inclusiva” che accoglie ed integra anche le popolazioni indigene ed è specchio di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, il Papa torna sul “mea culpa” pronunciato nel suo primo discorso: “Se pensiamo al dolore incancellabile provato in questi luoghi da tanti all’interno di istituzioni ecclesiali, viene solo da provare rabbia e vergogna”.
“Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana”.
L’educazione, puntualizza, deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone: “Non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l’avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita. Grazie a Dio, in parrocchie come questa, attraverso l’incontro, si costruiscono giorno dopo giorno le basi per la guarigione e la riconciliazione”.
“Nulla può cancellare la dignità violata, il male subìto, la fiducia tradita. E nemmeno la vergogna di noi credenti deve mai cancellarsi. Ma occorre ripartire
e Gesù non ci propone parole e buoni propositi, ma la croce, quell’amore scandaloso che si lascia infilzare i piedi e i polsi dai chiodi e trafiggere la testa di spine”, la direzione di marcia indicata e auspicata.
“Guardare insieme Cristo, l’amore tradito e crocifisso per noi; guardare Gesù, crocifisso in tanti alunni delle scuole residenziali”:
è questa, per Francesco, l’unica strada per guarire le “ferite tanto dolorose” del passato, inferte alle popolazioni indigene “quando i credenti si sono lasciati mondanizzare e, anziché promuovere la riconciliazione, hanno imposto il loro modello culturale”. Un atteggiamento, questo, “duro a morire, anche dal punto di vista religioso”. Ma Dio non agisce così, ammonisce il Papa: “non si può annunciare Dio in un modo contrario a Dio. Eppure, quante volte è successo nella storia!”. “Mentre Dio semplicemente e umilmente si propone, noi abbiamo sempre la tentazione di imporlo e di imporci in suo nome”, l’analisi di Francesco: “È la tentazione mondana di farlo scendere dalla croce per manifestarlo con la potenza e l’apparenza. Ma Gesù riconcilia sulla croce, non scendendo dalla croce”. “In nome di Gesù, non capiti più nella Chiesa di fare così”, l’appello finale.