“Ci auguriamo che si possa andare avanti per giungere ad una verità credibile”. È quanto afferma al Sir Anna Motta, la madre di Mario Paciolla, il cooperante italiano che lavorava per la missione Onu, morto in circostanze non ancora accertate, ma assai probabilmente ucciso il 15 luglio 2020 a San Vicente del Caguán, in Colombia. E in effetti, molte e rilevanti sono le novità emerse in questi giorni, attraverso gli articoli della giornalista freelance Claudia Julieta Duque, il più completo dei quali è uscito ieri su “El Espectador”. Si legge tra l’altro nell’articolo (i cui contenuti, in parte già erano filtrati attraverso la stampa italiana in questi giorni), a proposito della seconda autopsia, effettuata in Italia, sul corpo di Paciolla: “Sebbene le coltellate sul cadavere potessero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato delle lesioni ha permesso ai medici legali di determinare che mentre le ferite del polso destro presentavano ‘chiari segni di reazione vitale’, nella mano sinistra mostravano ‘caratteristiche sfumate di vitalità”, o ‘vitalità diffusa’ ,a suggerire che alcune delle ferite potessero essere inflitte ‘in limine vitae o anche post-mortem’, cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto”. Diventa, perciò del tutto legittimo supporre che il cooperante sia stato non solo ucciso, ma anche torturato.
Commenta l’esperto di diritti umani Cristiano Morsolin: “Sta funzionando il ponte tra la società civile italiana e Bogotá, le coraggiose inchieste della giornalista Julieta Duque, la famiglia di Mario Paciolla e deputati italiani impegnati come per esempio Erasmo Palazzotto, che, con la presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta su Giulio Regeni, ha dimostrato che la pressione diplomatica sia un cammino da percorrere per rompere il muro di gomma dell’impunità e dell’insabbiamento”.