Mentre tutti invocano la pace, in questi giorni non si fa che parlare di armi. Sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici leggere e pesanti, mortai (valore stimato tra 100 e 150 milioni di euro) che l’Italia ha inviato in Ucraina; i due fucili con cui il diciottenne Salvador Ramos ha compiuto la strage alla Robb Elementary School a Uvalde, in Texas; i 500 chili di tritolo che trent’anni fa hanno fatto saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone. Tristi anniversari che s’intrecciano con le notizie di attualità: armi, sempre, che causano la morte di civili, persone indifese, bambini e insegnanti, magistrati e poliziotti. La domanda che lega tutti questi fatti è: quale giustizia? Quale idea di giustizia si portano dentro la guerra, l’atto folle e omicida di uno sconsiderato, le trame mafiose dei capi clan? La risposta ci viene dal nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha ricordato la figura di Falcone e Borsellino, ammazzati da Cosa Nostra nel 1992, durante la cerimonia di commemorazione della strage di Capaci al Foro Italico di Palermo. «Con la loro professionalità e determinazione – ha spiegato – avevano inferto colpi durissimi alla mafia». E Falcone «coltivava il coraggio contro la viltà, frutto della paura e della fragilità di fronte all’arroganza della mafia». La mafia temeva i due magistrati «perché avevano dimostrato che essa non era imbattibile e che lo Stato era in grado di sconfiggerla attraverso la forza del diritto». L’unica forza alla quale ci affidiamo. A Capaci, oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, tra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Maria Falcone, sorella di Giovanni, nella puntata di sabato scorso di Le Parole, andata in onda su Rai3, intervistata da Massimo Gramellini, ha raccontato: «Ero a casa mia. Avevo preparato la torta per Giovanni che aveva fatto il compleanno il 18 ma non era potuto venire. Mi aveva detto che sarebbe venuto il 22 ma poi decise di venire la mattina successiva per attendere Francesca, la moglie. Quell’attesa gli è stata fatale». «Il 23 maggio ero a casa. Mi chiamò una amica ma non mi volle dire niente, mi chiese di parlare con mio marito e dalla sua faccia capii che era successo qualcosa di grave. Il mio pensiero andò subito a Giovanni, non pensai ai miei quattro figli che erano in giro per la città. Quando arrivai all’ospedale Civico mi venne incontro Paolo Borsellino. Non dimenticherò mai quella maglietta verde Lacoste alla quale mi abbracciai. Mi disse: “È morto qualche minuto fa tra le mie braccia”. Per me è come se il tempo si fosse cristallizzato in quel momento. Per me quindi non è il trentesimo anniversario ma è soltanto il 23 di maggio». Falcone morì tra le braccia di tutti gli italiani per bene. Esclusi, quindi, quei politici e magistrati che in vita lo osteggiarono in ogni modo. Sapeva che non c’erano alternative al rispetto della legge. Onorarla significa solo fare il proprio dovere. Ci lascia il grande esempio di un uomo che non si abbandonò mai alla rassegnazione e all’indifferenza.
Possiamo farlo anche noi, tutti i giorni, contro l’arroganza del potere, la falsità e i compromessi. Contro chi usa armi diverse, invisibili, per uccidere la nostra dignità di cittadini.
30 anni da Capaci. Possiamo fare come Falcone
Mentre tutti invocano la pace, in questi giorni non si fa che parlare di armi. Sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici leggere e pesanti, mortai (valore stimato tra 100 e 150 milioni di euro) che l’Italia ha inviato in Ucraina; i due fucili con cui il diciottenne Salvador Ramos ha compiuto la strage alla Robb Elementary School a Uvalde, in Texas; i 500 chili di tritolo che trent’anni fa hanno fatto saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone. Tristi anniversari che s’intrecciano con le notizie di attualità: armi, sempre, che causano la morte di civili, persone indifese, bambini e insegnanti, magistrati e poliziotti. La domanda che lega tutti questi fatti è: quale giustizia?