Dalle urne delle elezioni parlamentari libanesi, svoltesi domenica 15 maggio, esce un quadro politico a rischio paralisi, segnato sia dalla frammentazione delle sigle politiche che dalla polarizzazione dei potenziali assi di alleanza contrapposti. La coalizione politica che prevaleva nella precedente assemblea parlamentare e ha determinato le ultime compagini governative, formata dal Partito sciita filo-iraniano Hezbollah e dai suoi alleati, scrive Fides, perde la maggioranza parlamentare, ma la perdita di seggi è contenuta e non lascia immaginare un possibile rovesciamento del quadro politico. La distribuzione dei seggi tra le singole forze non appare al momento ancora definita in termini certi, ma è sicuro che Hezbollah e i Partiti alleati non controllano più i 70 seggi su 128 su cui potevano contare nel precedente Parlamento. Hezbollah e il suo principale alleato, il Partito sciita Amal, guidato dal presidente dell’Assemblea parlamentare Nabih Berri, mantengono il controllo delle proprie roccaforti. Tra i cosiddetti Partiti cristiani, il Movimento Patriottico Libero, fondato dal presidente Michel Aoun e alleato di Hezbollah, perde alcuni seggi, passando da 20 a 18, mentre le Forze Libanesi di Samir Geagea, appoggiate dall’Arabia Saudita e da Paesi occidentali, controllano nel nuovo Parlamento almeno 18 seggi (rispetto ai 14 guadagnati nella precedente tornata elettorale). Anche in questo caso, il travaso di seggi parlamentari dal Movimento Patriottico Libero alle Forze Libanesi non appare sufficiente a provocare un totale ribaltamento delle posizioni di forza tra gli schieramenti e gli orientamenti che determinano la politica libanese. Quanto al campo sunnita, il Movimento del Futuro, guidato da Saad Hariri, ha boicottato le elezioni, indebolendo la rappresentanza parlamentare di forze che in passate si erano collocate in maniera antagonista rispetto a Hezbollah e ai suoi alleati. Nella nuova Assemblea parlamentare, l’elemento di maggiore novità è rappresentato dall’arrivo in parlamento di 13 rappresentanti legati a sigle e gruppi che si rifanno in vari modi al movimento di protesta popolare emerso nel 2019, in seguito al fallimento bancario, e che aveva poi assunto la direzione di una contestazione globale contro tutte le forze politiche tradizionali dell’establishment libanese. Ma gli esponenti delle forze cosiddette “del cambiamento” si sono presentate alle elezioni in ordine sparso, e la loro frammentazione potrebbe indebolire nell’aula parlamentare l’impatto della loro affermazione elettorale. “Davanti a un quadro così incerto – riconosce il sacerdote maronita Rouphael Zgheib, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie (Pom) – è ancora presto per azzardare previsioni sul futuro politico del Paese. Ma appare chiaro ancora una volta che, se si vuole evitare lo stallo, occorre prendere atto che il Libano ha come cifra della propria identità il fatto di essere un Paese-crocevia, dove componenti diverse sono chiamate a formare un mosaico di convivenza. Nessuno può pensare di guidare il Libano esercitando un predominio che faccia fuori dalla scena i propri antagonisti politici. La via per uscire dalla crisi è quella di un alto compromesso politico, e anche geopolitico, che prenda atto della gravità della situazione e componga gli interessi e le istanze delle singole forze a vantaggio del bene comune”.