“Conosco bene il villaggio di Chegera a Buhumba, a Nord di Goma, dove il Papa celebrerà la messa quando sarà in Congo. È molto vicino a dove abitiamo noi. Speriamo che tutto vada per il meglio… Ormai la preparazione è cominciata, ci auguriamo di accogliere il Santo Padre con tanta fede. La gioia è grande per la sua visita”. Anche la preoccupazione, però. Ed è quella che attraversa per un attimo i pensieri di Antonina Lo Schiavo mentre ci parla al telefono da Goma. La missionaria fidei donum è testimone diretta della storia travagliata degli ultimi 50 anni del grande Congo. E del passaggio da colonia belga a Paese indipendente (e neo-colonizzato). “Il Papa (che sarà nuovamente in Africa dal 2 al 7 luglio – ndr) viene qui per stare in mezzo alla gente, per guardarla negli occhi! Speriamo davvero che le cose cambino: il Santo Padre ci incontrerà personalmente, anche noi missionari stiamo organizzando il cerimoniale”, dice Antonina. Chegera non è un posto qualsiasi: è il villaggio nei pressi del quale l’ambasciatore Luca Attanasio ha perso la vita nell’agguato al convoglio del Pam il 22 febbraio 2021.
La strada di Attanasio. Francesco arriverà a 15 chilometri a Nord di Goma, nel villaggio che sorge sulla Goma-Rutshuru, l’asse stradale dove è stata tesa l’imboscata alla scorta di Attanasio, con il carabiniere Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo. Il giorno in cui chiamiamo al telefono Antonina Lo Schiavo è anche quello in cui il Baromètre sécuritaire du Kivu (progetto di monitoraggio della sicurezza nell’Est del Paese ideato da Human Rights Watch) dà la notizia della ripresa dei combattimenti a Rutshuru, nel Nord del Kivu. “La milizia M23 ha attaccato l’esercito governativo in tre villaggi la mattina del 28 marzo scorso: a Runyoni, Chanzu e Ndiza. La gente fugge verso l’Uganda”, scrive il Baromètre. Il Paese confinante accoglie gli sfollati congolesi, sebbene poi l’esercito ugandese stesso sia infiltrato tra le milizie combattenti. Tutta la regione di Goma, nel Kivu è un “gran carnaio”: l’infittirsi della guerriglia senza regole e senza apparente motivazione (se non quella della conquista di terre ricche di minerali e della lotta per il potere, si parla di “balcanizzazione” del Congo), rende insicura la vita della gente comune. Non a caso Papa Francesco vuole arrivare proprio qui, nel cuore pulsante (e infernale) dell’immenso Paese africano. Ferito e in guerra con se stesso. Dove peraltro, come se non bastassero le armi, ciclicamente anche il vulcano si risveglia e rade al suolo le case. “Le ragazze che seguono i corsi di cucito nel nostro atelier di moda – racconta Lo Schiavo – sono ancora traumatizzate per l’eruzione vulcanica del maggio scorso. Però la gente riesce ogni volta a ricominciare tutto da capo; ha una forza incredibile!”.
Le tappe congolesi. “Cosa direi al Santo Padre? Quello che avrei voluto dirgli nel 2017 quando gli fu impossibile venire qui perché erano in programma le elezioni: voglio chiedergli di non stancarsi mai di denunciare e di essere una voce profetica, solo lui ha questa costanza. Lo stato d’assedio ha aggravato tutto, e non parlo solo di Beni ma anche della provincia dell’Ituri”, ci dice anche padre Gaspare Trasparano, al telefono da Kinshasa, ex Leopoldiville. Il missionario comboniano è l’attuale direttore delle Pontificie opere missionarie del Paese. “Aspettiamo da sei anni questa visita e ci auguriamo che la presenza del Papa a Goma possa smuovere le cose e accendere un riflettore sull’est del Congo. La speranza è che si arrivi all’apertura di un processo contro i massacri, presso la Corte penale internazionale”. Il riferimento è ai continui attentati ai civili in tutta la regione e in particolare a Beni. Il missionario conferma, dopo avere parlato con il nunzio apostolico in Congo, che il pontefice farà almeno due tappe congolesi ed incontrerà una delegazione delle famiglie delle vittime. “I Caschi Blu dell’Onu dicono di avere la documentazione, che con i droni hanno ripreso gli autori dei massacri e che ci saranno dei processi, ma questo non avviene mai – aggiunge padre Gaspare –. Noi preghiamo affinché la presenza del Papa spinga per l’apertura di un processo all’Aja”.
“Bisogno di politici santi”. Un altro missionario storico del Congo, per 17 anni a Goma oggi in Italia, padre Francesco Zampese, saveriano, dice che “la visita del Papa è un miracolo”. E che “mai come oggi è necessario che fede e politica si intreccino: abbiamo bisogno di politici santi. Nel Sinodo africano di tanti anni fa questa necessità venne ribadita e io spero che con il Papa in Congo si possa realizzare una rivoluzione copernicana dello sguardo sull’Africa: Francesco guarda il continente con un’apertura e un’attenzione paritaria”.
In Sud Sudan per una promessa… Il pontefice quindi anche in Sud Sudan, la cui gente ha forza e coraggio da vendere, ma che rimane tra i Paesi più insicuri al mondo. Anche qui il difficile processo di pace tra le molte milizie armate (schierate in parte con il presidente, in parte col suo rivale), ha subito una battuta d’arresto di recente. E anche qui Bergoglio andrà per dare seguito alla promessa fatta nel 2019. “Questa visita apostolica era attesissima: il Papa aveva promesso che sarebbe venuto da noi – ci dice al telefono un’altra missionaria di lungo corso, la comboniana suor Elena Balatti –. L’immagine del Santo Padre che in Vaticano lava i piedi ai leader sud sudanesi è qualcosa che rimarrà nella storia”. A Juba “i rappresentanti governativi hanno subito accolto in maniera molto positiva il fatto che si stia realizzando il sogno del viaggio di Francesco – aggiunge –. È un sogno perché l’immagine del Sud Sudan è negativa: è visto come il Paese della guerra e dei problemi. La visita del Papa dovrebbe rettificare questa idea”. Facile a dirsi, ma difficilissimo a farsi nel concreto. La rivalità insanabile tra il vice presidente Riek Machar e il presidente Salva Kiir (gli stessi che nel 2019 promisero di negoziare, davanti al pontefice che si inginocchiava ai loro piedi nel gesto evangelico della lavanda) si è riaccesa di recente, come riporta anche Africa News. Tanto che Macahr avrebbe chiesto a suo sostegno l’intervento del generale golpista del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan. Khartoum peraltro è uno dei garanti dell’accordo di pace in Sud Sudan, incrinato dagli ultimi fatti che vedono le fazioni ribelli e governative (a sostegno dell’uno e dell’altro contendente), tornare sul piede di guerra. Il nodo è il reintegro nell’esercito nazionale (cosa che non funziona come dovrebbe) e la sfida di governare assieme. La suddivisione del potere e la spartizione delle ricchezze sono il vulnus di un Paese che traballa.
Un momento drammatico. “Siamo in un momento davvero critico, i punti cruciali dell’accordo di pace non sono ancora stati attuati – spiega Yasmin Sooka, presidente della commissione dei Diritti umani in Sud Sudan, ad Africa Express –. In una tale atmosfera, le elezioni previste e attese per il 2023 potrebbero riaprire nuovi sanguinosi conflitti”. E ha aggiunto: “sappiamo bene che gli occhi del mondo sono ora puntati sulla terribile guerra che si sta consumando in Ucraina, ma non dobbiamo dimenticare ciò che accade in Sud Sudan”. È proprio dell’attenzione del mondo (dei fari puntati sulle loro azioni) che hanno bisogno i leader. E il viaggio del Papa dovrebbe restituire al Paese tutta la centralità che merita. Al momento gli sfollati sono oltre due milioni, i rifugiati nei Paesi limitrofi hanno raggiunto quota 2,3 milioni; 8,9 milioni di sud sudanesi necessitano urgentemente di aiuti umanitari. Inoltre, secondo il rapporto della commissione del 18 marzo scorso, membri del governo di Juba sarebbero responsabili nel Sud ovest del Paese, di violazioni dei diritti umani paragonabili a “crimini di guerra”. Ferite troppo profonde che solo un miracolo potrà risanare. A patto che gli si dia spazio e modo di agire.
(*) Popoli e Missione