L’ultima sera trascorsa da Gesù con i suoi prima di morire assume nel quarto Vangelo ampiezza e potenza di sintesi unica. Il quarto evangelista ordina in maniera specifica le tradizioni sulla consegna, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù e ci trasmette un tesoro inesauribile nelle parole del Signore offerte nei “discorsi a tavola” della Cena ultima.
II racconto del quarto Vangelo si distingue dagli altri per il risalto dato alla lavanda dei piedi: punto ultimo di abbassamento del Signore e Maestro che, denudato delle vesti, come lo schiavo purifica, rigenera i suoi. Alla cena segue il lungo discorso d’addio dei cc. 13-16, concluso dalla preghiera del c. 17, che dischiude proletticamente il mistero della morte e la risurrezione di Gesù. I cc. 13-17 si distaccano da quanto precede e da quanto segue. Offrono un’ermeneutica della vita illuminata dalla morte e della morte come accesso alla vita. L’interpretazione degli avvenimenti viene fornita prima che essi accadano nella storia. Gesù, con singolare, regale, tratto divino, anticipa ciò che potrebbe apparire come una catastrofe – e ne fa evento di glorificazione. E in quell’anticipare è anche l’esorcizzazione del veleno mortale degli eventi. Il loro significato è rivelato da colui che solo è in grado di farlo, attraverso il paradosso della abissale kenosi: è la gloria di Dio. Il Figlio, attraverso l’innalzamento della croce dei malfattori, passa da questo mondo al Padre amando i suoi «per un adempimento» (13,1). Il male, la violenza, la menzogna sono riscattati dall’amore fino alla fine che previene, liberamente anticipa e redime la creatura amata dal male del mondo.
All’inizio dei discorsi di addio tutta la vita di Gesù – in quel “deporre le vesti” e inginocchiarsi (13,4) è ricapitolata nel segno dell’ amore: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine» (13,1). L’amore è la chiave dell’esistenza di Gesù: e Gesù la consegna come il comandamento della vita dei suoi, il sigillo di riconoscimento tra lui e loro, tra loto e i “tutti (13,35). Attraverso questo amore concreto, Gesù consegna la capacità di amare, non solo lui, Gesù ama, ma con l’amore stesso con cui il Padre lo ama (17,26). La Pasqua di Gesù costituisce il passaggio obbligato per apprendere l’amore totale di Dio a favore dell’uomo, e dell’uomo in Dio. La “gloria” annunciata fin dall’inizio, nel Prologo, ora si compie. In questa descrizione delle azioni di Gesù, che in nessun altro brano evangelico è così minuziosa come in quello della lavanda dei piedi, non ci vengono forse proposti l’effetto e il frutto della fede dell’evangelista e della sua comunità?
L’amore compiuto di Gesù per i suoi, compreso alla fine come l’amore stesso del Padre per il Figlio, comunicato ai discepoli, si fa carne nell’amore vicendevole dei discepoli. Se 1’agape ha un modello nel Nuovo Testamento e in tutta la Bibbia cristiana, tale modello si trova qui.
È dal cuore di questo “ora, al presente” (la lavanda dei piedi, l’uscita di Giuda nella notte della consegna) che Gesù dà il comandamento nuovo, che rilancia l’alleanza nuova, già profetizzata in terra di deportazione, con Ez 36,22-32. Al pari del “come” del v. 15 a proposito dell’esempio della lavanda dei piedi, il “come” del v. 34 non ha il senso di imitazione di un modello esteriore, bensì quello di un fondamento: “Sul fondamento dell’amore con cui io vi ho amati, amatevi gli uni gli altri!”. X. Léon-Dufour traduce: “Con l’amore con cui vi ho amati, amatevi gli uni gli altri”. Non si tratta di amare Gesù in risposta al suo amore. Si tratta di amare immersi, battezzati nell’amore di Gesù, portandone in cuore il peso di memoria, rovente. Comandamento nuovo, come uomo nuovo è Gesù.
E l’amore deve stare, tanto visibile quanto umile, di fronte al mondo, a tutto il mondo, come l’alternativa radicale: della fraternità all’egoismo, della vita alla morte, della libertà alla schiavitù. Così, i discepoli devono mostrare rapporti nuovi, una nuova umanità, un mondo nuovo. È questa la missione. Comunità e missione non sono separabili. Là dove non esiste comunità, dove non c’è amore fraterno, la missione è impossibile, l’annuncio è svuotato alla radice. E là dove non c’è missione, dove non c’è slancio verso il mondo, l’amore non è più tale, privato di due dimensioni essenziali: la gratuità e l’universalità.
L’amore e la sua tenacia nel rimanere fedele: ecco la gloria di Dio. È la “pesantezza” di Dio. La creatività che non giudica, ma salva, e salva attraverso l’assunzione del peso – in Gesù che non butta via nulla di quanto riceve in affido. Ciò non avviene sorvolando l’orrore del tradimento. Il Figlio «glorificato» è il Cristo «consegnato». Dall’interno della sua lotta, Gesù previene e trasforma – transustanzia – il colmo dell’iniquità nella sovrabbondanza dell’amore misericordioso. In questo amore si manifesta la gloria che Gesù ha ricevuto dal Padre e che, irresistibilmente, ora brilla in lui.
“Ora”, dice Gesù. L’ora di Gesù è quella annunciata, attesa lungo tutto il Vangelo di Giovanni e riguarda il momento della morte in croce, manifestazione massima dell’amore di Gesù e del Padre. “A partire da quest’ora” (Gv 13,31). A partire dall’amore che rimane fedele dinanzi alla notte del tradimento, la gloria di Dio splende senza veli. “Ora – ora che io vi ho lavato i piedi, ora che vi ho consegnato il mio corpo e il mio sangue, ora che mi sono consegnato e da voi sono stato consegnato – il Figlio dell’Uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui”. Lasciarci attirare dalla rivelazione dell’amore fino alla fine, ecco cosa è fare liturgia.
Il tempo ha trovato il suo punto omega e al tempo stesso, l’alfa: le assi della croce coincidono in perfetto e cosmico equilibrio. È l’ora della Croce, quella finale per una nuova curva della vita: morte e risurrezione. Una liturgia solenne, dunque, è accaduta in quell’uscita nella notte, a cui Gesù aveva già dato il suo consenso chinandosi a lavare i piedi ai suoi, anche i piedi di Giuda. Una liturgia solenne, sacramento dell’amore.
Questo ci fa intravvedere qualcosa del mistero inaugurato da Gesù: il nuovo rito. Celebrare la liturgia, come in certo modo ci rivela il Vangelo, è anzitutto atto d’amore. Atto d’amore trasmesso in linguaggio rituale. Dovremmo ricordarlo, con timore e tremore, a ogni entrare nella celebrazione, ed essere fedeli a questa origine.
In questi vangeli del tempo pasquale, sia le domeniche che le ferie, dopo aver celebrato i racconti delle apparizioni del Risorto, ritorniamo per tre settimane in quell’ “Ora” che sintetizza tutta la vita di Gesù. Lì impariamo la radice di tutte le cose della vita cristiana.
Celebrare la liturgia. Gesù, nella sua ora ultima, proprio nell’ora in cui è consegnato – e Giovanni lo sottolinea esplicitamente –, quindi mentre sembrano interrompersi i legami con coloro che pure sono “suoi” e che egli sta amando “fino alla fine”, ci affida il mistero del nostro quotidiano celebrare. Gesù ha abolito e dichiarato la fine di tanti rituali, di tante inutili sacrifici, di tante cerimonie, sostanzialmente ipocrite.
Eppure, nella sua ora estrema, Gesù fa una liturgia. Nessuna comunicazione più diretta e sostanziale che quella del linguaggio simbolico, rituale. Istituisce il rito della memoria. La liturgia del suo corpo e del suo sangue consegnati, e inseparabilmente la liturgia della lavanda dei piedi – secondo quel misterioso parallelismo tra i sinottici e Giovanni – per dire l’amore “fino alla fine”.
Il comandamento di amare sgorga dalla liturgia in spirito e verità. Non è un fatto puramente rituale, eppure necessita di una sorta di ritualità, l’atto dell’amore fino alla fine. Chi può capire capisca. Ci vorrà tutta la vita, come dice il piccolo Placido, per capire che cosa significa Eucaristia.
Eucaristia è un atto d’amore. Da parte di Dio, anzitutto. Ma, corrispondentemente, è atto per Dio. Atto che ci lega tra noi, al di là dei nostri limiti. Liturgia è cosa molto seria nella vita cristiana.
Anima del comandamento nuovo. Fondamento della città nuova (seconda lettura). I cieli nuovi. La terra nuova. La novità è da intendere a partire da come dobbiamo amare. “Come” Gesù.
“Bisogna entrare nel regno attraverso molte tribolazioni” (prima lettura) . «Che questo “bisogna” mi diventi necessario come il respirare», dice frère Christophe di Tibhirine, alla vigilia di essere sequestrato dai suoi uccisori (27 febbraio 1996). E aggiunge: “che il tuo Spirito venga a me”. Lo chiediamo anche noi, molto umilmente.
*monaca di Viboldone