“… il primo della settimana” (Gv 20,19). Vorremmo sempre rimanere lì. In “quel giorno”. “Il principio dei giorni “ (Es 12,2). E di questo giorno, l’incanto della sera: sia Luca che Giovanni sottolineano l’esperienza della sera di quel giorno “unico”. Ogni nostro trovarci insieme radunati come chiesa – anche se inizia con segni di cose vecchie “a porte chiuse, per paura” – porta impresso il sapore di quella sera, di quel luogo; porta impresso lo stigma di parole, profumi, sciacquìo, asciugamani, calici. Il declinare del giorno, dopo quell’alba nuova a proposito della quale tutto ancora è mistero. Profondo degl’inferi, chiusure, presentimenti, rimpianti, desiderio profetico ma cieco: tutto si affastella, in un concentrato di sentimenti che fascia il luogo e i volti di silenzio sospeso, di malcelata paura. Spinta a fuggire.
Eppure…: attrazione ignota raduna gli undici, e forza dolcemente a rimanere, a ritornare “con”.
Passo passo, infatti, si entra nell’incontro con il Signore risorto: i passi descritti dai quattro Vangeli vanno semplicemente accolti stando lungamente su ogni parola, in silenzio da nostre prefigurazioni. Non sappiamo nulla della risurrezione di Gesù, se non che – con tutte le nostre ombre e sviamenti – “l’amiamo, pur senza averlo visto”. (1 Pt 1,8).
“Una sabbatorum” (“te mia sabbatôn”): il giorno uno, unico, nuovo, non connumerabile con nessun altro giorno. Tutti e quattro i Vangeli lo descrivono così: “l’uno della settimana”. Siamo al punto zero, ogni pasqua ci pone all’Inizio del credere. Mai conosciute risuonano le parole del Vangelo, perché mai prima di questo oggi le abbiamo udite con il loro suono vibrato da tutte le risonanze che l’oggi, con le sue vicende di vita e di morte, di guerra e di menzogna – il profondo dei nostri “inferi” – rende udibili.
I racconti di quel “primo giorno” sono per la chiesa – e per ciascuno, ciascuna nella comunità – un pozzo inesauribile di acqua viva, una brezza ingovernabile (“ e tu non sai donde viene e dove va” Gv 3,8) di respiro nuovo. Una nuova venuta:
“Venne Gesù, stette nel mezzo” (Gv 20,19b).
Gesù è ”nel mezzo”: come sulla croce tra i due malfattori con crocifissi: la sua posizione di Risorto è un “alto” custodito però al “centro” della vicenda umana ed ecclesiale. Nel mezzo delle nostre chiusure, nel mezzo delle nostre paure, dei dubbi, nel mezzo delle spinte a fuggire, al più profondo cuore dei nostri inferni.
“Stette”: visibile nei segni – ostentati – della passione, che paradossalmente suscitano la gioia di vedere. Bisogna sostare in silenzio, lungamente, su questa visione (v. 20) che succede all’annuncio “Pace!”, che è al tempo stesso processo di identificazione del Maestro, perdono, rigenerazione, nuova creazione.
La “liturgia del silenzio” (Olivier Clement) del v. 20 – concentrata tra il duplice augurio di pace – dischiude l’esperienza pasquale: è il momento culminante del riconoscimento. Con forza altissima, amplificata dall’attuale dura congiuntura storica, risuona il saluto di Gesù: a dire il mondo nuovo.
Gesù mostra mani e costato: i segni corporei della sua passione gloriosa, vittoria sul male e sulla morte; non dice nulla. I discepoli vedono e subito più forte, sovrastante tutti i sentimenti, è la gioia: non ci sono parole a questo evento di silenzioso incontro; riscatto tenerissimo, redenzione di quei tre terribili giorni di smarrimento è gratuita gioia, rugiada spremuta dal perdono.
Quale gioia infatti è mai questa? Ne parlano tutti e quattro gli evangelisti, è “grande” (Mt 28,8) ed è intrecciata al timore. Al punto che la gioia impedisce di credere (Lc 24,41). Dobbiamo sostare a lungo nel riconoscere in noi – in radice – questa gioia sospesa. È espansione dei polmoni, del cuore, per un respiro che viene da un mondo altro, mai conosciuto. È sentimento chiamato a maturare nella fede, fino a diventare dilatazione, stupita adesione al “mio Signore e mio Dio”. Questo è il lavoro del perdono e della testimonianza: “Abbiamo visto il Signore”. La gioia si converte: diventa “grande” e si mescola con la fede.
Solo le tracce leggere e mai spente delle Scritture introducono noi, che non abbiamo visto, dalla gioia al credere. La gioia è una fibra del credere, intrecciata con i sentimenti che il volto e le parole del Risorto suscitano: memoria, timore, riconoscenza, gratitudine, libertà, nuova innocenza, adorazione.
Così, alla fine della manifestazione nel Cenacolo, il processo dalla gioia alla fede ce lo richiama il cenno alla scrittura: “… sono scritti perché voi crediate e credendo abbiate vita”. (Gv 20,31). Toccare il corpo della Scrittura, del Libro, è l’ “altro modo”, descritto da Luca (Lc 24,40 // 24,44), quello che è lasciato a noi, insieme al Corpo eucaristico, per poter confessare: “mio Signore e mio Dio”.
Entriamo in quel Cenacolo dell’Origine, attraverso la lettura orante delle Scritture: il cuore dell’esperienza pasquale.
Ma quel Cenacolo, convoca tutta la storia dell’umano. Tutta la storia della salvezza: come viene rivissuta nel chiuso cenacolo, in quel soffio di Gesù.
“Ricevete” (v. 22, làbete) è un potente verbo pasquale, incluso tra i due annunci della pace e preceduto dal Soffio. L’iniziativa è di Gesù, e in quel momento i discepoli appaiono solo come dei recettori passivi: è la silenziosa passione di chi accoglie di essere perdonato, graziato, radicalmente rigenerato: nuovo Soffio. Gesù che sta davanti ai loro occhi è lo stesso di prima, e mostra mani e fianco che portano ben visibili le tracce della passione sofferta, ma non è più lui, perché ora le porte chiuse non sono più un ostacolo alla sua venuta, come non lo è stata la pietra del sepolcro.
Quel “ricevete” è in stretta relazione con il “consegnò” di Gv 19,30 – Dono che si effonde nel vuoto delle nostre fughe. Morendo, Gesù già ha consegnato lo Spirito sulla croce. A riceverlo, quello sparuto gruppo di poveri sotto la croce. Una cosa, però è consegnare lo Spirito, altra cosa è invitare a riceverlo. “Accogliete in voi lo Spirito santo”: è chiamata potente a rinascere dallo Spirito santo. L’essenziale della Pasqua è ricevere lo Spirito santo. Giovanni 7,39 precisava che non vi è Spirito fintantoché non viene comunicato al credente da Gesù glorificato come principio di generazione da Dio. È quanto avviene ora, a sera del “giorno uno della settimana”.
In quelle mani e in quel fianco, in quelle ferite mostrate ci sono “porte”: è come se tutto il suo corpo si spalancasse per fare uscire dalle mani il Soffio, e per accogliere tutti nel cuore,… Giuliana di Norwich, guidata da Dio, vede il Risorto come un giardino, un nuovo Eden, «un luogo bello e delizioso, largo abbastanza da contenere tutta l’umanità salvata perché vi riposasse nella pace e nell’amore» (Una rivelazione dell’amore, Milano 2015, c. 24, p. 188).
Anche “il gemello” dubitante, Tommaso, sarà persuaso, infine, a trovarvi riposo. “Mio Signore e mio Dio”- sintesi di ogni umano consenso della fede.
*monaca di Viboldone