Nel metterci in ascolto della pagina di Gv 8,1-11, non possiamo trascurare il fatto che questo Vangelo ha suscitato problema, nella Chiesa, dalla prima ora. Ha vagato per molto tempo fuori testo prima di prendere il suo posto nelle pagine scritte del Vangelo. Ospitato infine nel Quarto Vangelo. È un testo di Vangelo portatore di una verità imbarazzante, di una buona notizia difficile da ricevere, e imbarazzante da inserire nelle nostre narrazioni. Tocca un’inclinazione molto radicata nell’animo umano. La terribile forza distruttiva dello spirito di giudizio.
Secondo alcuni studiosi, l’episodio dell’adultera, nel Vangelo secondo Gv, prende il posto che il racconto della prova di Gesù al Getsemani ha nei Vangeli sinottici. La sfida, la paura della morte, Gesù l’affronta incontrandola sul volto di questa donna adultera condannata alla lapidazione. La legge, il giudizio, la condanna in base al comandamento di Dio: una situazione senza uscita che anticipa – in negativo, poiché qui lei, realmente colpevole, è l’imputata – il processo di Gesù.
Quando si crea una situazione diffusa di sospetto, di paura, attecchisce lo spirito cattivo del giudizio, per cui si cerca di dissociarsi da realtà a rischio, ci si estranea da legami che potrebbero esporci. Criminalizzare altri per rassicurare se stessi. La legalità presa a pretesto per eliminare l’altro, e per irridere la misericordia (“questo dicevano per mettere alla prova Gesù e avere di che accusarlo”, Gv 8,6). Quel bisogno di giudicare che mimetizza la paura. La voglia di colpire altri per assolvere se stessi, o dirottare lo sguardo da se stessi. Una terribile, diabolica strumentalizzazione della legge.
La fortezza di Gesù – rivela il Vangelo – è il coraggio di rimanere saldo nella debolezza della verità. In quei giorni ultimi che preludono la morte, è verosimile che Gesù in prima persona, o attraverso i sentimenti dei discepoli, sperimentasse la paura. Di notte esce da Gerusalemme e si apparta sul monte degli Ulivi, al mattino ritorna la tempio, tra la gente. Lì gli viene condotta una donna.
Dinanzi alla donna che la giustizia umana vuole lapidare, Gesù si china col volto a terra. Gesto simbolico: rappresenta al vivo la giustizia unica dell’umiltà di Dio. Rivelazione del suo mistero di uomo – Figlio, incarnazione dell’amore divino, annientato fino a terra.
Il giudicare di quegli scribi e farisei, invece, è un pretendere di possedere una verità “forte”: presumere di scrutare il cuore dell’altro coi propri occhi bui. “Con il giudizio col quale giudicate, sarete giudicati”, aveva detto con forza e mitezza Gesù (Mt 7,1). Al contrario, il giudizio umano che pesa sulla donna, Gesù – “solo” (8,9) dinanzi a lei -lo prende su di sé.
Sembra a scribi e farisei che esprimere un giudizio sia liberante, sembra che, dissociandoci, ci sollevi dal peso dell’altro. Giustizia è fatta. È un inganno sottile. In realtà – rivela il Vangelo – il giudizio che condanna altri ci ritorna addosso e incastra noi, come un boomerang.
Gesù capovolge tutto. Compie una cosa assolutamente nuova (Is 43,19: prima lettura) – a suo rischio. Si china: tre volte è ripetuto questo verbo, in forme diverse, prima e dopo la sua parola. Si china in silenzio. È gesto altamente simbolico. In silenzio, Gesù scandisce l’avvenimento coi movimenti del suo corpo. “Si china”, “si rialza”, “si sprofonda”. Di fronte all’insistenza di un interrogatorio spudorato che – in realtà – mette proprio lui, l’unico Innocente, al centro, fa di lui l’imputato, Gesù silenziosamente scrive a terra. Con gesto sovrano. Insegna, così, come riconoscere quando si crea tra gli umani un cerchio che non è di vita, e come spezzarlo. Interponendosi. In silenzioso scrivere per terra. È l’innocente che si annienta nel prendere su di sé. E solo così può, in conseguenza, rialzarsi: si alza dinanzi agli accusatori, e di nuovo si alza dinanzi all’adultera, per un giudizio rigenerante.
Non dice che la donna sia innocente. Dice che quel che importa è cominciare da se stessi ad assumere il peso della realtà: “Va’ e non peccare più”. Il giudizio, rigenerante, passa attraverso la sua carne umiliata a terra: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Con la sua misericordia egli è luce. Gesù, volto umano di Dio che non condanna ma, scrivendo chino a terra, sulla terra, disegna la nuova creatura. Assume il male del mondo.
L’immagine della convivenza umana rappresentata in quel “cerchio” infernale di Gv 8,3 è illuminante: fare cerchio per giudicare, per inchiodare, per pietrificare, nella presunzione di conoscere la Legge, di osservare il comandamento, è una triste ricorrenza nella storia religiosa.
Un cerchio triste e mortale, quello di coloro che si ritengono giusti, ma Gesù lo trasforma. Rompe le fila, dissolve lo sguardo spudorato che giudica, condanna, non sa il rispetto dell’altro: egli s’interpone. Lo sguardo arrischiato della misericordia, squarcio di cose nuove.
Gesù, in questo processo inaugurale, lungamente tace. Il solo Giusto, sta in silenzio. Il tacere dell’Innocente è il giudizio più radicale sulle menzogne umane. Ma chi sa ascoltare questo silenzio? Quei giudici se ne sono andati perché hanno capito quel silenzio, o per imbarazzo? Chi sa convertirsi alla forza redentrice di quel silenzio?
Decisivo è non lasciarsi scivolare via il silenzio di tutto questo Vangelo Dischiude la potenza, la serietà della parola di Gesù che manda in libertà. La novità sempre attesa, tanto attesa, secondo Isaia, ha i tratti del germogliare. Cioè ha i tratti di realtà piccolissima ma intensamente vitale, fragilissima ma portatrice del futuro, irrilevante agli occhi che vedono in superficie, decisiva allo sguardo che intuisce la vita in movimento, all’orecchio che ode mormorio del Soffio – la ricchezza e fecondità inesauribile della Promessa.
*osb, monaca di Viboldone