Una stazione verso la Pasqua, decisiva quanto la prova nel deserto, è l’evento della Trasfigurazione di Gesù – particolarmente nella versione di Luca che la liturgia, con paradosso rischiarante, accosta a Gen 15: Abramo, nomade per vie ignote, solo e senza futuro, uomo povero sotto la volta del cielo stellato, condotto fuori per l’alleanza; Gesù in preghiera nella notte sul monte, pronto a salire a Gerusalemme.
Due evidenze si affrontano, nel secondo – dopo la chiamata – rovente incontro di Abramo con il Signore, nel faccia a faccia carico di pathos: “me ne vado senza figli, un servo erediterà la mia vita” / “Io sono il tuo scudo”. E Abramo acconsente alla parola “che avviene per lui in visione” (Gen 15,1). Un momento originario della fede. Chi di noi non conosce questa notte senza stelle che d’improvviso s’illumina?
La fede, che è dono gratuito, si radica in questo cuore di povero.
Abramo, nostro padre nella fede: uomo senza terra e senza figli. Uomo senza futuro. Lo sguardo di Abramo è sconsolato; ma Dio gli dice: “Alza gli occhi”. Ed egli crede. Un evento del cuore: nessuna descrizione. Niente altro che quel “credette”. Ascolto, silenzio, sguardo. Il suo legame con Dio gli si fa luce, totalmente gratuita, che rischiara la sua notte – l’umana notte. La nostra. “Guarda in cielo e conta le stelle, se puoi”. Appoggiarsi a Dio con tutta la forza della desolazione, della domanda, vedendo nella volta del cielo buio scritta la promessa per me. Da Abramo, ai discepoli che scendono dal monte per incamminarsi verso Gerusalemme. Alla piccola Teresa di Lisieux che vede il proprio nome scritto nelle costellazioni: l’avventura della fede. La fede di Abramo ma anche di tutti i figli di Abramo, per grazia. Nei sotterranei ella storia di oggi. Vedere d’improvviso, quella immensa volta curva sull’uomo povero, piena di stelle, testimoni silenziose e persuasive della fedeltà di Dio. La bellezza e forza di Abramo è in quel suo ascolto, che genera uno sguardo. “Venne la parola del Signore ad Abramo nella visione”.
E Gesù, che – a seguito del primo annuncio della passione – sale sul monte a pregare, gli fa da pendant. Luca racconta un evento fuori dalla cronaca, che ridisegna tutti gi accadimenti non solo della vita di Gesù, ma della storia umana.
“E avvenne … (Lc 9, 28b). Il primo aprirsi dell’avvenimento, è l’iniziativa di Gesù di prendere con sé i tre discepoli e di salire con loro a pregare sul monte. L’atto della preghiera è insistito. Pregare è per Gesù la porta di ingresso della trasfigurazione, come – secondo il racconto di Luca – è l’incipit degli eventi decisivi del suo itinerario di vita, evento cerniera di tutti gli snodi cruciali. Il pregare del Figlio, l’esporsi di Gesù, uomo figlio, all’avventura di una relazione totalmente “espropriante” eppure assolutamente generativa, luminosa e affidabile, e proprio così capace di originare una storia nuova. Dall’Uno alle moltitudini: la preghiera del Figlio è il braciere della storia “altra” dell’umano e dell’universo. Nella trasfigurazione, il mistero del pregare di Gesù si rivela in tutta la sua grazia “trasformante”.
È nel pregare, racconta Luca, che l’effigie del volto di Gesù diviene altra. Le sue vesti bianche irradiano luce. Il compimento già dà segno di sé sul volto e nelle vesti del Figlio che, obbediente al Padre, s’incammina verso Gerusalemme. La Legge e i Profeti in dialogo con Gesù trovano pienezza di luce. Le Scritture si animano, fino a parlare di lui, in lui l’esodo si anima quale dimensione cruciale dell’umano – “Ascoltate lui!”.
In dialogo vitale con le Scritture che, come nel deserto, si accendono e diventano linguaggio del suo legame con l’Abbà, Gesù in preghiera è la Parola del Padre. Questo è per Luca il nucleo profondo della trasfigurazione.
In preghiera il volto umano di Gesù s’intride, lascia trasparire – è in lui come luce interiore – l’amore del Padre, e splende. E splendono le vesti. In questa sua preghiera, lascia trapelare la verità finale di ogni essere umano, la bellezza ultima, la luce irradiante, la meraviglia del corpo umano illuminato dalla scelta di Dio – “l’Eletto”. L’elezione – da Abramo a Gesù: quale cammino di illuminazione, dall’interiorità visitata dall’amicizia di Dio. E noi vi siamo implicati: “Chi accuserà gli eletti di Dio?”.
Ma ecco: discepoli nell’entrare in questa nube, luminosa e al tempo stesso oscura, sperimentano paura. Elezione non è una scelta che sequestra in un luogo protetto e privilegiato: è scelta che destina, che sospinge verso un esodo universale che attira e spaventa. Perché i tre si percepiscono gettati in una storia nuova, che trasformerà pure loro.
Quel pregare. Mettersi davanti a Dio nella nudità del volto e del corpo. L’intuizione propria di Luca nel leggere e raccontare la trasfigurazione come atto di preghiera deve coinvolgerci.
La manifestazione della Bellezza ultima passa attraverso la preghiera, qui e in altri momenti decisivi. Nei sotterranei della storia, nei bunker della guerra.
Nel cuore della prova ultima, nella notte del tradimento. Una funzione “visiva” nuova si inaugura grazie alla preghiera, là dove Dio è accolto come l’Altro e pure affidabile Amico. Dio, accettato nella sua differenza dai nostri sogni e dai nostri bisogni di assicurare, costruire, fissare. Dio, visto là dove non si comprende, ma ci si lascia radicalmente coinvolgere.
La reciprocità della fede è rivelata in questo mirabile dittico della Liturgia della seconda tappa di quaresima, il dittico di Abramo e del Figlio trasfigurato.
La luce sul volto e dalle vesti e l’illuminarsi delle Scritture provocano i discepoli; Pietro dà, al suo solito, una lettura impulsiva: “… facciamo qualcosa per fermare questo istante”. Invece, no. Ci sono momenti in cui il peso della gloria di Dio nell’umano, il peso della gloria dell’amore, solo può essere accolto, lasciandosi avvolgere dalla sua nube, incessante battesimo nell’onda oscura e luminosa al tempo stesso. Non con un “fare” i discepoli potranno stabilirsi in quella bellezza, ma anzitutto, avvolti da quella gloria, con l’aprirsi all’ascolto della Parola; e, in obbedienza alla parola, scendendo dal Tabor e salendo passo passo la via al Calvario, approdo di quell’eccesso di amore che il Tabor prefigura. Solo ascoltando quell’Amore incredibilmente mite, e lasciandosi guidare a valle dalla sua luce, essi saranno salvati. “Ascoltate lui”. Nessun altro. Il Figlio è l’unico legislatore, maestro e profeta. L’eletto. Da non confondersi con nessuno.
Per questo la consegna del silenzio, fino a che il Figlio non sia riconoscibile, fuori di ogni equivoco, nella croce. L’evento della trasfigurazione si incunea in un contesto di crisi: non è un momento di esaltazione, ma sta tra i due annunci del morire violento. Ecco, l’annuncio che per Gesù è la forma umana più appropriata alla gloria dell’Amore: è quella dello schiavo.
Questo ci riguarda proprio nel nostro oggi, precisamente in questa quaresima. Gesù vuole che i discepoli entrino insieme in quella nube. “Trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”. Il corpo martoriato di questa nostra umanità, umiliata da nuove devastanti, insensate, diaboliche guerre. La visione della gloria è per la sequela di lui, il Servo. Anche noi, lungo il cammino della vita, sperimentiamo la necessità di cambiare forma. Ma la forma dello schiavo è la sintesi di tutti i passaggi: nell’esistenza di Risorto, Gesù rimane l’Agnello che è stato immolato. La morphe doulou è il mistero annunciato nella Trasfigurazione, nella quale il Padre riconosce il Figlio amato e lo popone all’ascolto: Verbo abbreviato, Verbo ammutolito, consumazione di tutto il parlare di Dio.
Non si raggiunge per le vie del potere mondano, ma per il cammino paziente dell’amore che si fa semplicità di gesti quotidiani. Su questa base dobbiamo convertirci quotidianamente alla bellezza della Pasqua.
La trasfigurazione è la costante della fede, in una storia umana sempre complessa.
Luca, non per nulla, la pone di notte. E, nella notte del duro tempo che viviamo, la preghiera di Gesù, speranza non vana, riflette bagliori insperati di pace.
(*) monaca di Viboldone