L'esperienza ambrosiana

Oratori: largo ai giovani, ma non solo. Don Marelli: serve più che mai una “comunità educante”

Sono oltre 5mila le istituzioni educative in Italia che hanno origine nei diversi carismi di Filippo Neri, don Bosco e san Carlo Borromeo. Lo stretto rapporto con la parrocchia e il ruolo degli adulti. Cambiano le giovani generazioni e l’oratorio si trova ad affrontare nuove sfide

Don Samuele Marelli, direttore della Fondazione oratori milanesi (foto ITL-Mariga)

Il rapporto tra educazione ed evangelizzazione, le figure educative, l’appartenenza comunitaria, la questione educativa in riferimento all’identità di genere: sono le quattro principali sfide che don Samuele Marelli, direttore della Fom (Fondazione oratori milanesi), riassume per una delle più antiche istituzioni ecclesiali dedicate ai giovani. In Italia si contano circa 5mila oratori, 2.300 dei quali in Lombardia e oltre 900 nella sola diocesi di Milano. Una istituzione rilanciata nel 2013 dai vescovi italiani con la nota Cei “Il laboratorio dei talenti” sul “valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo”, e “fotografata” anche di recente con alcuni studi su scala nazionale e regionale. Tra gli ultimi volumi quello curato da Paolo Alfieri e Simonetta Polenghi, “Gli oratori ambrosiani nel Novecento” (Vita e Pensiero), in cui appare un contributo prospettico di don Marelli.

 

Comunità al servizio dei giovani. “La nascita degli oratori si fa risalire a Filippo Neri, nella Roma del ‘500, con un carisma religioso a forte impronta spirituale. Nella Torino dell’800 abbiamo l’oratorio di don Bosco, che ha un evidente presupposto sociale. Ma c’è una terza esperienza, milanese, legata all’arcivescovo Carlo Borromeo. Siamo ancora una volta nel ‘500. In questo caso la matrice è carismatico-istituzionale”. San Carlo, spiega Marelli, accosta la cura dei ragazzi e dei giovani alla stessa vita della comunità cristiana locale; “l’oratorio è – se vogliamo – il cortile del parroco”. Da lì in poi i vescovi successori del Borromeo dedicano una speciale attenzione all’oratorio che, anche per l’influenza del vescovo metropolita, si diffondono nelle altre diocesi lombarde.

“Ugualmente oggi lo potremmo definire come lo strumento educativo della parrocchia per la gioventù”.

Questione di “qualità”. Ma cambiano i tempi, la società, gli stessi giovani… Quali sono le sfide che questa istituzione ha di fronte? “Occorre cambiare – afferma don Marelli – avendo cura di mantenere alta la proposta qualitativa”. La società si è secolarizzata e mostra una forte impronta individualista; non è più assicurata la trasmissione della fede in famiglia e nel rapporto adulti-giovani; i ragazzi a loro volta mutano, hanno numerosi impegni e lo smartphone sempre tra le mani… “Certo, l’oratorio deve tener conto della minore quantità di tempo che resta ai ragazzi al di là degli impegni scolastici, sportivi, ludici… Dobbiamo comprendere quali siano i bisogni delle nuove generazioni, cercando, per così dire, di trasfigurarli, andando oltre. L’oratorio deve affinare la sua proposta educativa, a partire dalle esigenze di relazione, di gioco, di creatività dei giovani. Può così essere un luogo generativo, in cui si genera l’umano e l’umano cristianoin cui la vita e la fede non siano separate”. Anche per questo l’impegno formativo “deve cercare di rispondere alle diverse età, mettendo al centro i ragazzi, rendendoli protagonisti” e non solo “fruitori”: dall’adolescenza si è chiamati a qualche servizio ai più piccoli, diventando ad esempio a propria volta animatori.

 

Convertire i battezzati… Torniamo alla società secolarizzata: non è facile il compito di educare alla fede, non è vero? Una volta, segnala don Marelli, si parlava di “cristianesimo atmosferico”, oggi non è più così, e si avverte “semmai il compito, come si dice, di convertire i battezzati”. Gli oratori e le parrocchie ambrosiane partono dal presupposto che “il battesimo di per sé non garantisce un’esperienza di fede”; da qui

l’impegno per una “riappropriazione personale” e “comunitaria” della fede stessa.

Con i giovani l’oratorio tenta un “equilibrio sapiente” tra l’annuncio “esplicito” (catechesi, vangelo…) ed “implicito” (appunto attraverso le relazioni educative, l’amicizia, lo sport, la dimensione della festa, l’oratorio estivo, il campeggio…), in cui il “vangelo non è sempre nominato, ma sempre vissuto”.

 

Una “comunità educante”. Ulteriori attenzioni riguardano il rispetto delle differenze di genere – pur in cammini formativi proposti insieme a ragazzi e ragazze (il recente corso per gli educatori era dedicato a “Declinare la fede al maschile e al femminile”) – e la intergenerazionalità. “L’oratorio – afferma il direttore Fom – ha una proposta commisurata alle fasce d’età, dai bambini fino ai giovani; ma non vuole essere solo una somma di tali proposte. Si tratta piuttosto di creare dei legami tra le diverse età, in cui i più grandi abbiano cura dei più piccoli”. In questo senso si pone un problema che sottolinea lo stesso Marelli: “È il nodo della ‘titolarità’ dell’oratorio”, un servizio educativo che non può essere appaltato al prete o a qualche catechista, bensì “è la comunità parrocchiale nel suo insieme che se ne deve far carico, con adulti responsabili che si mettono a disposizione dei giovani”. “Abbiamo – prosegue il sacerdote – ragazzi fantastici, intelligenti, ma non di rado soli, fragili. Occorre creare relazioni educative significative, con adulti esemplari che accompagnino i ragazzi a diventare grandi”. Eventuali altri punti deboli? Don Marelli, nel suo ufficio di via Sant’Antonio, a due passi dal Duomo, risponde: “C’è il tema della progettualità educativa. A volte parrocchia e oratorio propongono innumerevoli attività, ma dietro si fatica a intravvedere una proposta definita, una traiettoria condivisa, con qualche obiettivo specifico individuato in base alla stessa realtà comunitaria. In questo senso l’arcivescovo Scola ci ha richiamati al tema della ‘comunità educante’”.